sabato 21 marzo 2015
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Mancano solo due mesi al giugno 2015 per l’approvazione delle paludi irachene come Patrimonio naturale dell’Umanità, secondo quanto previsto dalla tabella di marcia dell’Unesco, l’agenzia culturale delle Nazioni Unite che domani celebrano la Giornata mondiale dell’acqua. Il percorso è stato lungo – la preparazione della richiesta risale al 2010 – ma l’ingegnere Yassim al-Asadi, direttore della sede irachena dell’ong “Nature Iraq”, sembra quasi soddisfatto: «Il processo di nomina è stato già di per sé un risultato importante, che contribuirà sostanzialmente alla salvaguardia della biodiversità eccezionale delle paludi irachene e dei resti archeologici delle città mesopotamiche di Uruk, Ur e Eridu che si svilupparono all’interno di zone umide e che sono ora circondate dal deserto. Attendiamo il pronunciamento finale del comitato del Patrimonio per vedere coronato il nostro impegno». L’ingegnere al-Asadi è originario di Kybaish, il centro degli acquitrini iracheni prima che Tigri ed Eufrate si gettino insieme nello Shatt al-’Arab: un’estensione di ottomila chilometri di paludi comunicanti nel Sud dell’Iraq, nel cuore della Mesopotamia, un tempo popolata da migliaia di abitanti, tutti di etnia Ma’dan – un popolo il cui unico stile di vita era stato conservato per oltre cinquemila anni. L’ingegnere da anni traghetta piccolissimi gruppi di biologi, archeologi e attivisti dell’ambiente verso quest’area. Con pazienza, prima è riuscito a creare un dialogo tra le varie tribù di sciiti dell’etnia Ma’dan (i Bani Asad, i Bani Tamim, gli Albu-Hassan, gli Albu-Muhammad e i Bani Lam); poi, con l’aiuto della americana “The Nature Iraq Foundation” e grazie alla campagna della società civile irachena “Save the Tigris and the Iraqi Marshes” e dei suoi straordinari attivisti iracheni e di ong internazionali, tra cui l’italiana “Un ponte per”, si è arrivati alla firma del dossier di nomina delle paludi del Sud dell’Iraq e delle città mesopotamiche come proprietà naturale e culturale mista da sottoporre per l’iscrizione alla Lista del Patrimonio Unesco. La firma, apposta il 23 gennaio 2013 dal ministro dell’Ambiente iracheno Sargun Saylawa e dal ministro del Turismo e delle antichità Lewa’a Smaisem, non era un atto scontato. «C’è voluto parecchio tempo e un laboratorio finale in Giordania, oltre che tentativi di colloquio con la Turchia, per mettere tutti d’accordo – confida al-Asadi –, dai capi tribù agli sceicchi che si occupano di attività di estrazione del petrolio, fino alle stesse compagnie petrolifere e ai vari apparati dello Stato. L’acqua in Iraq è un patrimonio che vale quanto e più dell’oro nero». Che l’acqua della Mesopotamia valga la storia di ieri e di oggi lo dimostrano avvenimenti della contemporaneità recente sul corso del Tigri e dell’Eufrate: ieri la sistematica attività di costruzione di dighe nell’era di Saddam, funzionali da una parte all’utilizzo per fini di produzione energetica, dall’altra per l’affossamento economico di minoranze etniche (è appunto il caso dei Ma’dan sciiti); oggi l’attenzione maniacale del sedicente Stato Islamico verso le riserve d’acqua, ovvero le dighe di Falluja e Sudur nelle aree a nord di Baghdad sotto il suo attuale controllo, a Mosul (diga Saddam) e nel governatorato di Anbar (diga Qadisiya), nonché verso le alture del Tigri e dell’Eufrate ai confini turchi.  L’importanza della difesa delle acque irachene, infatti, non si esaurisce nella protezione di un bene naturale inestimabile a Sud del Paese. Johanna Rivera, operatrice umanitaria e coordinatore della campagna internazionale “Save the Tigris”, spiega che uno dei punti più rilevanti della campagna è l’arresto della costruzione di una centrale idroelettrica sulla diga di Ilisu, una struttura fortemente voluta dal governo turco in prossimità di Hasankeyf – al confine tra Turchia e Iraq – e che ha come obiettivo lo sfruttamento delle acque del Tigri e dell’Eufrate alla sorgente per la produzione energetica statale: «Con il proseguimento della costruzione della diga di Ilisu e della centrale idroelettrica sul fiume Tigri, il cantiere della diga è stato militarizzato intensamente dal dicembre scorso. Da agosto a dicembre 2014, infatti, la costruzione della diga era stata interrotta dopo che tutti i lavoratori avevano dato le dimissioni a seguito del rapimento di due subappaltatori da parte delle milizie curde. A questa data, circa l’ottanta per cento della costruzione era stata conclusa ma la centrale idroelettrica non era ancora stata costruita. All’inizio di dicembre 2014 sono subentrati nuovi subappaltatori e centinaia di lavoratori non curdi dalle province turche. La gente del posto non vuole più lavorare al progetto perché considera sempre più la diga di Ilisu come una minaccia per la propria vita. Attualmente la costruzione è garantita da seicento soldati che si aggiungono ai mille già impiegati. E, negli ultimi mesi, più di cento civili nei quattro villaggi intorno alla diga sono stati assunti dallo Stato turco come operai». La costruzione della centrale elettrica, oltre alle implicazioni politiche ed economiche per l’Iraq, completamente dipendente dall’acqua del Tigri, ha anche un altro effetto: la messa in pericolo dei monumenti storici di Hasankeyf, che non possono essere trasferiti per realizzare una sorta di parco archeologico vicino alla Nuova Hasankeyf, a due chilometri a nord della città antica. Nessuna azienda, infatti, ha partecipato all’appalto “Water Works” dello Stato turco per trasferire il mausoleo di Zeynel Bey, risalente al 1462, nella nuova città alla fine del 2014. Motivazioni addotte; non è tecnicamente possibile trasferire altrove il monumento. Verrà inevitabilmente distrutto per lasciare il posto a un mostro dalla capacità idroelettrica prevista di 1200 mw.
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