domenica 25 giugno 2017
Alto Adige e Südtirol, due nomi (e due lingue) per uno stesso luogo. Ma attraverso la cultura il territorio è diventato un laboratorio dove prende forma un nuovo concetto di identità e di appartenenza
Una veduta di Merano

Una veduta di Merano

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Alto Adige e Südtirol: non solo due nomi diversi per uno stesso luogo ma due punti di vista distanti. Il primo – che riprende il toponimo napoleonico – implica una visione dall’Italia. Il secondo, che prevede un complementare “Nord”, da oltre il Brennero. A lungo i due termini hanno identificato una sorta di “iper-regione”, un territorio abitato da due comunità sovrapposte l’una all’altra ma prive di contatti. Un fatto scatenato nel 1918 con l’annessione da parte dell’Italia di un territorio “italiano” sotto il profilo geografico ma che culturalmente con la penisola non aveva mai avuto nulla a che fare. Il fascismo provvide poi a una italianizzazione forzata: dai nuovi toponimi e l’esclusività dell’italiano negli uffici pubblici e a scuola, alla messa al bando dei trachten, i costumi locali. Dopo la guerra inizia un percorso che porta al riconoscimento del tedesco come lingua ufficiale e alla nascita della provincia autonoma – e insieme alla divisione di due comunità.

Per quella di lingua tedesca è forte il senso di perdita della patria: non l’Austria, ma quel Tirolo dissoltosi per sempre. E per gli italiani, immigrati e già soggetti a uno sradicamento, è comune la certezza di essere considerati come estranei. Oggi quest’area è un laboratorio di estremo interesse per capire come evolve e si ridefinisce il concetto di identità. Un osservatorio ideale è Merano, che festeggia i 700 anni del titolo di città. Il centro fu nel medioevo una sorta di capitale del Tirolo (il castello che dà il nome a tutto il territorio è poco sopra la città) e nell’Ottocento è stato uno di luoghi di soggiorno e di cura favoriti della mitteleuropa, da Sissi a Kafka.

A Kunst Meran è in corso fino al 9 luglio la mostra “Chi è ancora austriaco?”. Il curatore Luigi Fassi ha chiamato cinque artisti a lavorare sul presente del tessuto sociale e storico cittadino. Lo spunto è un testo di Musil del 1916: «Prova a domandare a un contadino in Galizia, a un avvocato in Boemia, a un maestro di scuola di Vienna, a un sacerdote del Tirolo settentrionale e a un giudice del Tirolo meridionale che cosa siano. Riceverai sicurissimamente come risposta: un polacco, un boemo-tedesco o un ceco, un austrotedesco, un tirolese, un italiano. Nessuno, alla tua domanda così semplice, risponderà con altrettanta semplicità: “sono austriaco!”». L’occhio degli artisti rivela una realtà ormai distante da quella a cui si ancorano le vecchie contrapposizioni. Il brasiliano Runo Lagomarsino si concentra sull’attuale fenomeno migratorio e l’ormai stretta dipendenza del Brennero dal Mediterraneo; la ricerca fotografica dell’ivoriano François-Xavier Gbré è un dialogo a distanza con un suo connazionale residente a Merano. Il Super 8 di Renato Leotta esplora il territorio meranese mescolandolo a frammenti del paesaggio del resto d’Italia. La meranese Sonia Leimer lavora sulle mele evidenziando come la standardizzazione delle colture abbia cancellato le tradizionali varietà autoctone. Nicolò Degiorgis, bolzanino, presenta una serie di ritratti fotografici da lapidi dicimiteri meranesi (diversi per ogni comunità linguistica e religiosa: ve ne sono anche di ortodossi e di protestanti), dove il volto è però cancellato, segno della scomparsa nel tempo di ogni differenza. La mostra sposta il fuoco e la scala: superare la questione dell’identità locale per pensarla nel quadro più grande.



Arno Kompatscher, governatore della provincia autonoma di Bolzano, lo scorso 11 giugno in occasione della cerimonia con il presidente Mattarella e l’omologo austriaco Van der Bellen per i 25 anni della chiusura della vertenza altoatesina davanti alle Nazione unite, ha definito l’Alto Adige “una piccola Europa nella grande Europa”. «Oggi abbiamo una grande chance – commenta Herta Torggler, direttrice di Kunst Meran – Rimane importante il nucleo dove si vive, con le differenze di costumi, di dialetti… Ma dobbiamo sapere vivere anche nel grande. Se mi chiedesse se possiamo dirci italiani, le risponderei che è difficile. Abbiamo un ottimo rapporto con il resto del paese, ma non riusciamo a sentirci completamente italiani. La verità è che ci sentiamo soprattutto europei».

Se è impossibile risolvere l’identità in un presente istituzionale che non lo esaurisce e il rimpiangere un passato dissolto non porta lontano, la via possibile sembra dunque il pensarsi in contesto più ampio. Ma sotto i colpi della quotidianità vacillano anche vecchie posizioni. «Criticità e malesseri tuttora persistono, ma abbiamo fatto un percorso e superato le contrapposizioni». Barbara Nesticò è dirigente della ripartizione Istruzione, cultura e servizi sociali del comune di Merano ed è responsabile dei festeggiamentidel giubileo: «Per certi versi ha vinto la politica del tenere le due culture separate, come nella scuola. Allo stesso tempo, soprattutto a Merano, dove le comunità sono in percentuali paritetiche, si è creata una nuova generazione di lingua italiana orgogliosa di essere sudtirolese, impara il tedesco e non sopporta più di sentirsi estranea. Magari ancora con difficoltà e in modo limitato ad alcune fasce della popolazione: ma prima questo fenomeno non c’era». È la cultura il volano dell’incontro: «Entrambe le comunità hanno mondi culturali ricchi e vivaci. Il pubblico frequenta eventi nella lingua altrui e ci sono istituzioni che tengono insieme l’una e l’altra comunità».

Il fenomeno è presente in misura minore a Bolzano, sia perché è il centro del potere politico sia perché è la sola città in Alto Adige dove il gruppo linguistico italiano è predominante. Nelle valli il gruppo tedesco ha l’egemonia assoluta e gli italiani sono pochi. «Noi ci illudiamo di poter costituire un modello – prosegue Nesticò –. Nelle celebrazioni abbiamo posto molta attenzione al fatto che lo scaturire di una nuova identità sia possibile dal contatto delle due culture. Nel creare il programma di 700XM volevamo che tutti proponessero le loro idee. Il comune, oltre a proporre eventi propri, ha fatto da regia. Sono arrivati oltre cento progetti. Abbiamo voluto sperimentare un metodo di lavoro, che ci è piaciuto al di là della qualità dei singoli eventi. A noi interessava che tutti si sentissero parte di questo processo. Puntando allo stesso modello ci siamo candidati a capitale italiana della cultura. Può apparire una cosa strana per Merano... Sarà necessario trovare il modo giusto per comunicare il progetto qui, rendendo chiaro, per evitare strumentalizzazioni, che non si vuole fare un’operazione di italianità o nazionalista».


Risalendo il Passirio si raggiunge San Leonardo in Passiria, paese natale di Andreas Hofer, l’eroe nazionale tirolese. Nel 1809 alla testa degli Schützen aveva guidato l’insorgenza contro le truppo francobavaresi, sotto le quali il Tirolo era passato nel 1805. Dopo i primi successi la resistenza, anche a causa del voltafaccia di Vienna – che prima caldeggiò l’insurrezione e poi si alleò con Napoleone – andò verso il disastro. Nel 1810 Hofer è catturato dai francesi, quindi condotto a Mantova dove è giustiziato: diventando così una figura mitica del nazionalismo tirolese. Il Museo Andreas Hofer è il posto giusto per chi volesse davvero capire le dinamiche di questo territorio. Attraverso l’allestimento interattivo e una narrazione priva di retorica è possibile scoprire non solo quei fatti storici ma anche il significato assunto da Hofer nella storia. Lo visitano ogni anno oltre 20mila persone. Anche qui si può misurare il cambiamento in atto: «Il percorso sollecita la domanda “Cosa ha che fare Andreas Hofer con noi?” - spiega la direttrice Angelika Schwarz - Se prima i discorsi ruotavano attorno al “grande Hofer”, al “padre di tutti i tirolesi”, oggi i giovani lo guardano sotto una luce diversa, mentre molti visitatori chiedono ad esempio di Hofer marito e padre: domande che 20 anni nessuno avrebbe fatto ». Nel 2009 si è celebrato in grande pompa il bicentenario dell’insorgenza. Ma l’effetto è stato un boomerang: «C’è stato un sovraccarico di attenzione su Hofer. Dal turismo ai libri, Hofer è stato trasformato in un marchio: il vino, la birra… addirittura si era pensato di fare la “pizza Hofer”. E così una parte di gente non vuole più sentire parlare di lui. E poi c’è una parte che ha capito che può essere una figura moderna, non solo un appalto di nazionalisti e Schützen». Pur nel permanere di differenze, «l’Hofer come emblema della separazione dei sudtirolesi dall’Austria non è più centrale».

La Val Passiria è chiusa a ovest dal Passo del Rombo, un valico di confine. Lungo la strada vertiginosa, sia in territorio italiano che austriaco, Werner Tscholl ha realizzato una serie di strutture in cemento che costituiscono un museo a tappe e un intervento paesaggistico di formidabile potenza. Nel 2016 Tscholl è stato nominato architetto italiano dell’anno: «Non deve stupire – dice – ormai l’architettura altoatesina è conosciuta in Italia. E qui erano tutti contenti...». Negli ultimi tre decenni si è assistito a un vistoso impegno architettonico tra residenze private e imprese, come ad esempio le cantine vinicole. Un exploit, di cui Tscholl è stato pioniere, che sta incidendo nella costruzione di una nuova identità. «All’inizio eravamo guardati criticati e anche i turisti all’inizio non amavano le nostre costruzioni, volevano le baite: ora c’è un turismo che viene apposta per la nuova architettura altoatesina. È sempre così, qualcuno inizia qualcosa di non pensabile, quelli che stanno intorno crescono, lo capiscono, diventa una cosa comune. L’architettura ha cambiato la vista sull’Alto Adige».


Una trasformazione frutto della dimensione europea: «Trenta anni fa qui non c’era quasi nemmeno la figura dell’architetto. Negli anni 80 molti giovani hanno studiato in Europa, chi a Firenze come me, chi a Venezia, chi a Graz, chi a Monaco. Sono tornati e hanno cominciato a fare architettura, anche nelle valli, in coincidenza con un momento di crescita economica e trovando i committenti giusti al momento giusto. Quando ha visto quanto realizzavano i privati, la Provincia ha incentivato il movimento con concorsi e committenze, intuendo che con l’architettura poteva crescere il rispetto verso la realtà politica e territoriale dell’Alto Adige. Oggi siamo tra le prime regioni cercano di fare architettura e non solo costruire. La qualità genera la qualità. E questo ha cambiato le cose».

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