giovedì 2 dicembre 2010
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«L’amicizia nel Medioevo assomiglia spesso a ciò che chiameremmo oggi patronato, consorteria, clientelismo. Quest’amicizia fu centrale ad esempio nella Firenze del Trecento e Quattrocento, dove il gioco politico prese spesso corpo in mezzo a fazioni e gruppi d’interesse comunali rivali». A sottolinearlo è la nota medievista francese Christiane Klapisch-Zuber, che riceverà sabato il "Premio internazionale Ascoli Piceno" per i suoi studi sulla società fiorentina tardomedievale e tra l’altro autrice di Ritorno alla politica. I magnati fiorentini, 1340-1400 (Viella editore) e direttrice di studi alla École des hautes études en science sociales. La cerimonia di consegna giungerà in chiusura del convegno "Parole e realtà dell’amicizia medievale", organizzato a partire da oggi nel capoluogo marchigiano dall’Istituto superiore di studi medievali "Cecco d’Ascoli". La Firenze di Dante e poi quella quattrocentesca rinnovarono il modo di essere cittadini?«Studiando un centinaio di famiglie del ceto nobile fiorentino, mi sono accorta che lo Stato embrionale e nascente si è molto basato in questa fase sul controllo rigoroso delle identità e dei nomi. Le identità, probabilmente, di tutti i cittadini. In questo quadro, il cambiamento e l’acquisizione di nome sono divenuti cruciali. Nel caso dei cosiddetti "magnati", i cittadini più ricchi e influenti, l’identità personale e familiare ha assunto un ruolo pubblico e civile di primissimo piano».Sembrerebbe una premessa di fenomeni italiani di lungo corso e persino odierni…«Sono d’accordo. Evidentemente, le forme familiari fiorentine dell’epoca erano molto diverse da quelle odierne. Ma resta costante il peso particolare di certe famiglie e del modello familiare sulla scena pubblica».Cosa l’ha più colpita nell’esplorazione della società fiorentina medievale?«In particolare una questione, sulla quale del resto le mie tesi sono state criticate. Le donne, così spesso magnificamente rappresentate nell’arte del tempo, occupavano una posizione estremamente limitata e controllata nella vita corrente e pubblica. Evidenziandolo, credo di aver urtato dei luoghi comuni tradizionali. Il diritto a Firenze proteggeva le donne, ma non ne favoriva l’autonomia, ad eccezione di situazioni particolari come la condizione di vedova. Nei ceti popolari, invece, le donne lavoravano sodo e in condizioni spesso difficili. A ogni livello, comunque, parlare di autonomia femminile sembra fuori luogo».In proposito, alcuni studiosi, come il francese Jacques Dalarun, hanno al contempo sottolineato che la sfera religiosa fu per molte donne dell’epoca un fattore d’emancipazione. Condivide?«La dimensione femminile della religione alla fine del Medioevo italiano e l’impatto del misticismo femminile furono in effetti fenomeni estremamente importanti. La santità femminile, ad esempio, ebbe un’influenza talora eccezionale sulla vita corrente e sull’arte. Questa tendenza sarà avvertita nel corso di due o tre secoli, cioè fino alla Controriforma. In seguito, diventerà di gran lunga meno percepibile».Città come Firenze furono anche le incubatrici di una sorta di borghesia?«Più che di borghesia in senso stretto, conviene ancora parlare di ceti mercantili aperti sul mondo esterno. Al contempo, sia pure senza la stessa influenza, anche i gruppi di piccoli artigiani, fabbricanti e commercianti svolgono un ruolo considerevole nella vita pubblica comunale». Ancor oggi, il modello politico fiorentino è spesso associato nell’immaginario all’idea di signoria. Una visione corretta?«Non proprio. I Medici non impersonarono un modello di signoria. Almeno fino al Cinquecento, quando diventeranno duchi. In linea di principio, restarono anch’essi dei cittadini. In ogni caso, non acquisirono il titolo di signori, come avveniva invece in tante altre città medievali. A partire dalla metà del Trecento, i Medici dimostrarono persino una certa reticenza verso il modello della signoria, vista quasi come una forma di tirannia. Il modello politico restò a lungo fondato sul confronto dei grandi mercanti e capitalisti con gli strati medi, ad esempio artigianali, caratterizzati da un raggio d’azione più locale».Nella Firenze tardomedievale, la chiave di lettura più pertinente resta dunque il modello comunale?«Sì, l’ideologia comunale era molto forte e radicata, non solo presso le élite mercantili e politiche, ma anche nei ceti medi. Anzi, persino i ceti più umili furono probabilmente sensibili allo spirito comunale».Dante resta anche un simbolo di impegno politico. Tale impegno era diffuso nella società fiorentina?«L’umanesimo civile espresso da figure come Dante restò una prerogativa dei ceti dominanti. Ma l’indipendenza comunale e anche l’organizzazione dei rapporti con le campagne, a cui parteciparono pure molti cittadini modesti che detenevano piccoli fondi rurali, contribuirono certamente alla diffusione abbastanza ampia di un sentimento di partecipazione politica».In generale, quale le pare l’eredità più feconda di questa fase storica?«Probabilmente, la forza politica della dimensione locale. Essa ha certamente lasciato delle tracce. E per un francese, ad esempio, è sempre interessante constatare la residua forza odierna delle rivalità fra certe città o regioni italiane. Si pensi solo a Firenze e Pisa. Il fenomeno regionalista è stato certamente inaugurato in Italia ben prima che in Francia».Il locale ha resistito al nazionale?«Sì. E spesso per fortuna, direi, almeno in certi casi. In Italia, sopravvivono coscienze locali che possono rivelarsi molto feconde nel gioco nazionale. In Francia, le resistenze regionali allo Stato centralizzato hanno invece spesso assunto la forma di rivolte rabbiose e non sempre costruttive».
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