domenica 25 luglio 2010
COMMENTA E CONDIVIDI
Ai calciofili che continuano indefessi ad arrovellarsi sull’arcano secolare: «Il più forte giocatore di tutti i tempi è stato Pelè o Maradona?», mastro Gianni Brera, dietro a una nuvola di fumo del suo sigaro, ieri come oggi, avrebbe risposto con perentoria sentenza citando in causa il terzo incomodo: «Giuseppe Meazza, perché il Peppìn è stato el fòlber». Un predestinato fin dall’anno di nascita, era venuto alla luce a Milano, quartiere popolare di Porta Vittoria nel 1910, il 23 agosto. Tre mesi dopo quel 15 maggio in cui all’Arena aveva fatto il suo debutto la nostra Nazionale di calcio. E di quella squadra il Peppìn, «con le spallucce cadenti, sintesi perfetta brianteo-bassaiola del popolano lombardo», di lì a poco sarebbe diventato il simbolo, la più grande leggenda azzurra. Con un pallone di stracci incollato ai piedi, il piccolo giocoliere ambidestro, dal bolide precoce e rovente come le castagne della caldarroste di corso Venezia, dall’alba al tramonto, con tunnel e magie, sfidava i suoi compagni di brigata. Fu durante una di quelle interminabili partite, in quei campetti di Porta Vittoria, che gli arrivò come una gamba tesa al cuore, il grido di dolore di sua madre, Ersilia, la “verduratta” del mercato ortofrutticolo, che lo richiamava a casa per la luttuosa notizia. A sette anni il Peppìn si ritrovò orfano, suo padre era caduto al fronte nella Grande guerra. Una Caporetto nella testa, già dura e avvezza all’inzuccata vincente in porta, di quel soldo di cacio dai polmoni sfiatati, «troppo gracile per fare sport», secondo i medici. Ciechi scienziati che non avevano intuito che su un campo di calcio quel “pastina” diventava di colpo una scheggia impazzita, immarcabile, leader indiscusso al grido: «Faso tuto mi». Piedi di razza mai vista prima e le preghiere di mamma Ersilia che, ogni domenica prima di ogni partita del suo Peppìn offriva una Messa, gli permisero di arrivare a giocare con i ragazzi dell’Internazionale, prepotentemente italianizzata dal Fascio in Ambrosiana. Debutto a diciassette anni in prima squadra, nella finale della Coppa Volta, per volere del mister illuminato Árpád Weisz su consiglio del “Dottore” Fuffo Bernardini. Spavaldo come un Mario Balotelli del secolo scorso, capelli impomatati di brillantina e sguardo fiero negli occhi bovini, si accingeva a fare il suo ingresso in campo con la maglia nerazzurra, quando di scatto gli arrivò l’eco di un’entrata da dietro del veterano Poldo Conti che ironizzava: «Adesso qui facciamo giocare pure i balilla…». Ma il vecchio Poldo non aveva fatto i conti con la volontà del dio Eupalla che aveva spedito sulla terra uno dei suoi massimi epigoni, il Peppìn. Meazza si presentò con una tripletta e l’Ambrosiana vinse la Coppa Volta. Così da da quel giorno divenne l’idolo delle folle degli stadi d’Italia e poi d’Europa, salutato, con o senza braccio destro teso, al nome di “Balilla”. Il Regime sfruttò il prode centrattacco rendendolo con il pugile Primo Carnera il suo uomo immagine. E approfittando del vuoto lasciato dalle cronache nere ormai bandite dai quotidiani, spazio a nove colonne sulle pagine in cui si tracciava il profilo maestoso del Meazza, perfetto fascista che dormiva sempre con la foto di Mussolini sul comodino. In realtà il Peppìn dalla politica si teneva alla stessa distanza di sicurezza con cui si smarcava dell’acerrimo francobollatore Monti. Fuori dal rettangolo di gioco, le idee e i suoi pensieri erano molto spettinati, mentre con i capelli sempre in ordine brillava nelle balere e con il sorriso da bullo di rione andava incontro alla dolce vita. Galante con le donne che lo adoravano, ma anche in campo, in cui uccellava cortesemente i portieri con il famigerato “gol a invito”. Prodezza brevettata che l’oracolo ambrosiano non seppe mai spiegare a parole sue. Una magia, una danza al centro dell’area dove, una volta ricevuta palla, attirava fuori dai pali il portiere, lasciandolo perplesso e solitario steso in terra, per poi depositare il pallone con calma e di piattone nell’angolino, tra lo stupore rumoroso degli spalti in visibilio. Riso amaro, ma anche lacrime, il 9 febbraio del 1930 quando ricevette la prima convocazione in Nazionale da parte del “tenente” Vittorio Pozzo che lo chiamava a Roma, nell’amichevole contro la Svizzera. Mamma Ersilia non stava nella pelle, lanciò il grembiule al cielo, abbandonò il bancone e salutando le comari di quartiere annunciava: «Devo prendere il treno per Roma, il mio Peppino ha bisogno di me». I cinquantamila dello Stadio Nazionale del Pnf avevano occhi solo per quel ventenne che aveva strappato il posto niente meno che al grande centravanti del Napoli, l’oriundo Attila Sallustro. Ma Meazza nel primo tempo, per sua stessa ammissione aveva "la zucca vuota" e non gli riusciva neppure di stoppare il pallone. Fischi e insulti a pioggia, carichi di invettive nell’idioma del Belli fecero arrossire dalla vergogna mamma Ersilia che dopo 45 minuti con gli svizzeri in vantaggio per 2-1, scappò dalla tribuna e tra i singhiozzi attese il ritorno del figlio in albergo. «Mai ho provato un dolore così grande. Neppure ti immagini Peppino le parole cattive che hanno dovuto ascoltare queste orecchie… A quel “Meazza vai al macello”, poi, non ho più resistito e sono scappata... », disse inondando di lacrime quel figlio temerario che con un ghigno la spiazzò raccontandogli dell’"impresa" – aveva segnato la doppietta decisiva e l’Italia aveva vinto 4-2.Da quel giorno poi nessun portiere, tranne la sua “bestia nera”, lo spagnolo Ricardo Zamora, rimase inviolato nel confronto diretto con il temutissimo “Balilla”, protagonista assoluto della prima storica vittoria a Budapest contro i maestri danubiani: Ungheria-Italia 0-5. Come un Cesare, Meazza marciò su Roma per la finale del Mondiale del ’34, vinta contro la Cecoslovacchia. Con la prima stella iridata l’Italia dei “ragazzi di Mussolini” accettò la sfida nella tana dei superbi inglesi, disertori al Mondiale in quanto si ritenevano unici depositari del football. Nella “battaglia” di Higbury il più leone dei leoni azzurri fu ancora il Peppìn che con l’Italia sotto di 3 reti e in dieci uomini (Monti infortunato, non c’erano sostituzioni allora) trascinò con due gol la squadra a sfiorare una rimonta epica. Finì 3-2, ma gli inglesi strabuzzarono gli occhi dinanzi a quel campione che univa in egual dosaggio classe e potenza. Meazza dopo Londra conquistò anche Parigi, alzando al cielo dello Stadio de Colombes la seconda Coppa Rimet: l’Italia bicampione del mondo umiliava ancora l’Ungheria (4-2). I francesi in estasi definirono Meazza "Grand peintre du football". Il Peppìn con il premio del titolo mondiale (ottomila lire) aveva comprato una Fiat Balilla. Perfino l’apparecchio radiofonico, dal quale Nicolò Carosio narrava in collegamento con gli abbonati dell’Eiar le gesta eroiche di Meazza, si chiamava Radiobalilla. Dopo il ’38 però il cielo sopra il Peppìn d’improvviso si fece azzurro tenebra. Il “Manifesto della Razza”, portò alla deportazione degli ebrei e nel lager di Auschwitz morì il suo pigmalione Árpád Weisz e tutti i membri della sua famiglia. Gli inverni freddi e disumani dei campi di concentramento, d’un tratto è come se si fossero trasferiti nel “piede gelato” (occlusione ai vasi sanguigni) di Meazza che fu costretto al ritiro anticipato. Solo per il vil denaro provò a tornare il grande Meazza, accettando di giocare persino con gli “odiati” cugini del Milan e poi nella Juve; nel ’47 chiuse all’Inter. Il Balilla che sopravvisse al suo mito fino a 69 anni. E anche nel giorno dell’addio al Peppìn, forse Brera non sbagliò sentenza: «Gli eroi quelli veri, andrebbero per tempo rapiti in cielo, così come usava una volta, che non debbano restare fra noi a morire accorati e offesi della loro ingiustissima sorte».
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: