lunedì 16 giugno 2014
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​Una donna di nome Sharbat, non ancora una donna. Due occhi di ghiaccio su un viso impaurito che affiora da un rosso chador. È La ragazza afghana, un’immagine che ha fatto il giro del mondo, testimone degli orrori di una guerra fino allora sconosciuta fuori dai suoi confini. Era il giugno del 1985, a immortalare la dodicenne che aveva perso i genitori in un conflitto a fuoco fu Steve McCurry, americano di Philadelphia, uno che non si accontenta di un’istantanea ma cerca di catturare una storia in ogni volto che incontra. E così ha fatto anche in Iran e Iraq, a Beirut, in Cambogia, nelle Filippine. La sua Monnalisa afgana, finita poi sulla copertina del “National Geographic”, è diventata un’icona di tutte le guerre che hanno sconvolto il pianeta in quegli anni. Ma è anche un segno di eleganza e poesia. Le stesse che ora troviamo nelle 100 “foto di pace” che il grande fotoreporter ha realizzato durante il suo viaggio in Umbria, una regione che per lui rappresenta «un piccolo-grande museo a cielo aperto dove domina la natura e la gente è ancora legata alle tradizioni e ai valori dell’accoglienza e del rispetto». La terra di San Francesco. «Ma l’Umbria non è solo turismo – dice McCurry – è proprio la vita!». Dal suo lavoro è scaturita una mostra, Sensational Umbria, promossa dalla Regione e ospitata in questi giorni, fino al 5 ottobre, a Perugia, nelle sale dell’ex Fatebenefratelli e del Museo di Palazzo Penna. Che valore ha per lei lo sguardo quando scatta una foto?«È fondamentale, perché gli occhi sono lo specchio dell’anima e io devo mettermi ogni volta in rapporto con la persona che devo fotografare, voglio entrarci dentro fino a dove posso. Per poter restituire le emozioni agli altri. È lo sguardo quello che può fare la differenza, il mio e il suo».Dalla «Ragazza afghana» alla «Ragazza di Bevagna» potremmo dire, visto che l’icona della sua mostra perugina è il volto di una giovane in costume medievale che ha incontrato durante la rievocazione del Mercato delle Gaite: una figura che evoca, per la profondità d’espressione, quella di Sharbat... RA>«Certo, anche se nella bellezza della ragazza umbra e nel suo sguardo interrogativo, ovviamente, traspare serenità e non dolore».  Lei è stato testimone delle brutture della guerra, ha visto più volte la morte in faccia. Cosa le è rimasto di quelle esperienze?«L’immagine che ho scolpita nel cuore è quella di tanti bambini e di donne, di persone innocenti intrappolate nella violenza cieca di guerre assurde».Uno dei temi che ha affrontato nel suo viaggio fotografico in Umbria sono i luoghi della spiritualità. Che cosa le hanno lasciato dentro?«Ho imparato molto girando per chiese e monasteri, incontrando religiosi che mi hanno spiegato la loro vita tra preghiera, lavoro, studio e impegno tra la gente. Non importa che uno sia cristiano per poter apprezzare questo modo di vivere l’esistenza. Ho conosciuto i benedettini dell’abbazia di Sassovivo, vicino Foligno. Si interessano di tutto, non sono chiusi al mondo». E cosa pensa di San Francesco d’Assisi e del messaggio di pace che porta al mondo?  «Mi ha ispirato Assisi, che ho fotografato da lontano, tra le pendici del Subasio e la campagna dove lui andava a predicare... a me, che vivo nella caotica New York, a Greenwich Village, colpiscono molto questi paesaggi immersi nella quiete, Comunque, la vita di San Francesco è stata un esempio di grande umanità: ha abbandonato tutto e amato gli altri, anche i nemici, senza condizioni: chi lo farebbe oggi? La sua presenza è una sensazione netta per me.  Io, che non sono cristiano, penso a lui, immagino lui come rimedio quando vedo i poveri e i bisognosi in ogni angolo del mondo».Cosa è cambiato nell’arte fotografica con l’avvento del digitale? Ha nostalgia del Kodachrome che lei ha sempre usato per i suoi capolavori?«No, nessuna nostalgia. Con il digitale si lavora meglio, anche con la luce bassa, si possono fare tante cose che prima non erano possibili. Mi piace».
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