giovedì 2 marzo 2017
A un mese dalla morte, colloquio inedito con lo scrittore realizzato nel 1992, in piena guerra civile: il ruolo etico della scrittura nei Paesi dell’Est
Predrag Matvejevic, nato a Mostar nel 1932, è morto a Zagabria il 2 febbraio scorso.

Predrag Matvejevic, nato a Mostar nel 1932, è morto a Zagabria il 2 febbraio scorso.

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Un mese fa moriva a Zagabria Predrag Matvejevic. Scrittore, storico, nato nel 1932 a Mostar. Il padre era russo di Odessa, arrivato sulla Neretva in fuga dalla rivoluzione bolscevica e la madre era croata. La fama di Matvejevic è legata al libro Breviario Mediterraneo, ma va ricordato per la sua instancabile difesa degli scrittori e intellettuali, russi e dei Paesi dell’est, le cui opere e le cui vite sono state schiacciate dal tallone delle dittature. Nell’inverno del 1992 esce nei tipi di Garzanti Epistolario dell’altra Europa. Lettere agli oppressi e ai potenti, scritture antisistema. È questo, dentro la guerra dei Balcani, il motivo del nostro incontro. Matvejevic - presto sarà costretto all’esilio - abita ancora nella sua città, Zagabria, in via Jurišiceva 1/A all’angolo della grande piazza del Bano. «Le lettere partono 22 anni fa. Ho iniziato nel 1970, l’ultima è dell’estate del ’92. Volevo difendere una nozione personale di letteratura, di cultura, di intellighenzia. L’intellighenzia nella tradizione russa ha uno spazio che permette la grande letteratura.

Spazio perduto, preso dalla politica, proibito. La prima edizione, del 1985, era samizdat, un’autoedizione, conteneva 75 lettere in cui difendevo la libertà degli scrittori a fronte della nomenklatura e dei tribunali. Oggi lo spettro delle sciagure si è enormemente dilatato. Difendo anche ciò che rimane del mio Paese». Zagabria nell’inverno 1992 è deserta, è una città in guerra, si apprestano difese, chiusa verso Belgrado e verso il mare. Matvejevic, nel settembre 1990, dopo l’esibi- zione nazionalista di Miloševic nella Kosovo polje, la piana dei merli, con «nessuno tocchi un serbo», gli scrive e pubblica una lettera fitta di ragionate accuse, indicandolo all’origine della deriva nazionalista e della guerra. I vetri di casa Matvejevic sono rigati di ghiaccio, le grandi stanze sono fredde. Lui tiene davanti a sé, su un piccolo tavolo di legno, le 400 pagine dell’Epistolario. Ecco gli atti di un conto con la storia mai saldato: dal XX congresso - aprile del 1956 quando Chrušcëv denuncia i delitti di Stalin, al dicembre del 1991 mese e anno in cui l’Unione Sovietica cessa di esistere e Michail Gorbacëv, l’uomo della perestrojka, si dimette. E dentro la successione di morti, di suicidi, il gulag degli scrittori: Osip e Nadežda Mandel’štam, Varlam Šalamov I racconti di Kolyma, Karlo Stajner 7000 giorni in Siberia, Aleksandr Solženicyn Arcipelago gulag, Andrej Sinjavskij Una voce dal coro… «Così anche gli scrittori della mia generazione: Danilo Kiš muore, nel 1989, in esilio volontario a Parigi, mai riconciliato con la sua città, Belgrado; Mirko Kovac, picchiato e minacciato di morte dagli uomini di Šešelj, fugge da Belgrado e si rifugia a Rovigno; Filip David rimane a Belgrado ma perde il lavoro; io sto per ritirami in Italia; Marko Vešovic e Abdulah Sidran sono chiusi in Sarajevo assediata…».

Nelle pagine dell’Epistolario ci sono anche nutriti capitoli di autobiografia: «Nel luglio del 1972 riesco ad andare a Odessa, in modo fortuito, alla ricerca dei resti della famiglia paterna. Uno zio morto nel gulag, il nonno per cinque anni nel gulag, mia nonna impazzita durante questo tempo, e, contemporaneamente, mio padre prigioniero di guerra in un lager tedesco, durante la seconda guerra mondiale…». E la bella cugina Tusja che il padre accompagnava al pianoforte? «La ritrovo che abita in un magazzino di pietre e assi, un unico locale stretto e sudicio in via Mikojan 4. Fa fatica ad alzarsi dal letto, quasi non si muove, un letto di ferro dai bordi arrugginiti, con vicino qualcosa di simile a un comodino con una candela bruciata su un piatto e un tavolino, rigato e sporco, con sopra non si capisce bene se un lavamano o una scodella. Ai piedi del letto un paio di ciabatte usate anche come scarpe, nella neve, in cortile, quando va alla latrina».

Una famiglia decimata, una tragedia allineata con quella di un popolo. Predrag Matvejevic - antinazionalista, jugoslavista, fiero oppositore dei circoli militari - è ancora vivo perché nel 1972 ha difeso con lettere pubbliche - riprese nell’Epistolario - Franjo Tudjman, l’attuale presidente del Paese, già generale di Tito, condannato e imprigionato per 'nazionalismo'. Tuttavia nella notte colpi di pistola: «Colpi sparati dentro la cassetta postale che è nell’androne e la scritta ' crvena konj', cavallino rosso. Abito in un Paese in guerra e queste sono le modalità della guerra. Ma sono rimasto solo, soprattutto dopo la morte di Kiš. Ci univa il fatto di essere meticci, io di padre russo e madre croata, lui di padre ebreo e madre montenegrina. Sto lontano da Zagabria. Insegno a Parigi, vengo molto in Italia». «La Jugoslavia – continua – ha dato un contributo fondamentale al disgelo. Ho potuto scrivere le lettere ai potenti, consegnarle e uscirne indenne perché jugoslavo». La Jugoslavia è caduta, rimangono rissose repubbliche e comunità disposte a delinquere. Le parole sono cadute: gulag, disgelo, riabilitazione, rovesciate nella fossa comune della storia.

Tengono il banco adesso i rich kids, i figli degli oligarchi, bruciano denaro in pubblico, guidano automobili con i volanti in oro. «Il sistema che è crollato – dice, in piedi sulla soglia del commiato – era comunque un sistema. Rimane un caos, un’anarchia». Le lettere raccolte nell’Epistolario sono state inviate e pubblicate, la parola è stata data. Andrej Sinjavskij, esule alla periferia di Parigi dove abita in una specie di dacia (ha pubblicato con lo pseudonimo di Abram Terc, ha fatto il gulag) afferma che la «parola avrebbe salvato i russi», ripropone l’importanza vitale del pronunciare alcune parole invece che altre, dell’essere coerenti con le parole che si dicono e del ritorno delle parole che si dicono nel corso della vita. Parliamo di scrittori, costruttori di parole, che rischiano la prigionia, anzi la praticano, rischiano la vita, anzi la perdono, per delle parole. Lei cosa ne pensa? «Questo è il problema centrale del mio libro, il peso della parola. Scrivere una lettera, una petizione nei Paesi occidentali, non costituisce alcun rischio. C’è anzi un’attività petizionale molto abbondante che non interessa molto e il potere non si sente minacciato da queste parole. Nell’Europa dell’est una lettera aperta, pubblicata o non pubblicata, un samizdat che si moltiplicava passando da una mano all’altra, aveva un’importanza grandissima e una grande responsabilità.

Nella tradizione slava e soprattutto russa, c’è questo atteggiamento 'biblico' rispetto alla parola». Prima di lasciarci, nell’androne freddo dove pende, sforacchiata dai colpi, la buca della posta in metallo, dice: «Non ho fatto questa impresa e assunto questi rischi per essere remunerato intellettualmente o altrimenti. Il libro si è fatto da solo. È la letteratura che ha permesso di dare significato a queste prese di posizioni e un peso. E questo è un fatto autobiografico e al tempo stesso letterario». Così Predrag Matvejevic nella piazza del Bano deserta, nella sua città deserta, in una una conversazione pubblicata adesso, nei giorni del lutto.

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