venerdì 28 febbraio 2014
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L’artista grande, il genio, a dispetto della sua qualità fuori dal comune, solitamente è umile di fronte alla propria arte. Un amico scultore scomparso un paio d’anni fa, Ilario Fioravanti, quando parlava del suo rapporto con l’antico riassumeva la questione con una battuta efficace: «Quando sei di fronte all’antico, tu devi essere umile, devi essere meno bravo, solo così sei bravo veramente. Sei servo del pastore». Vale anche di fronte alla realtà, ma soprattutto quando ci si misura con le proprie capacità: essere servo del pastore significa accettare anche di rifare il percorso daccapo. Se un artista grande è un artista umile, ecco che viene subito da dire: e Picasso? Ma quando si parla dell’artista bisogna avere la capacità di astrarre dall’uomo, e l’uomo Picasso era la maschera che Picasso artista indossava per far credere che tutto gli veniva con quell’estrema facilità che si condensa nel detto Ars est celare artem, cui uno studioso di oggi, Paolo D’Angelo, ha appena dedicato un saggio edito da Quodlibet. È bravo chi riesce a non dare a vedere quanto è bravo. Picasso, nei panni dell’artista, era uno che voleva imparare tutto dell’arte che praticava, e in questo dimostrava la propria umiltà. La grandezza dei suoi risultati non ha bisogno di essere ostentata, è lì, a conferma paradossalmente della battuta che è diventata il titolo di un libro di Bonami, «potevo farlo anch’io». Ma, appunto, prima di Picasso nessuno l’aveva fatto, e l’apparente facilità di certe sue cose sono proprio il modo di celare quell’arte che possedeva, dissimulandone la componente tecnica.L’altro grande genio del Novecento, Matisse, quell’umiltà la praticò prima per necessità e poi per ascesi. Quasi trentenne, è povero in canna, ha già avuto una figlia dalla prima modella, e poi altri due figli dalla moglie, Amélie, che ha accettato di occuparsi anche della bambina; lui non lavora, lei tiene in piedi il bilancio come può.Matisse ha sempre confessato di non poter lavorare senza avere di fronte un modello. La vicenda è ben introdotta da Isabelle Monod-Fontaine, curatrice della mostra dedicata al grande artista. Spinto dal bisogno di disporre di modelli, ma senza un soldo per pagarli, Matisse torna a scuola e frequenta le sedute di nudo in accademia. Ecco, Matisse è in quell’immagine, lui, già vecchio rispetto ai ragazzi che sono suoi compagni di scuola, si fa umile di fronte alla povertà cui è costretto dal fatto di non essere ancora un artista che guadagna bene vendendo le sue opere. Ma nello stesso tempo ha l’occasione di ricominciare a pensare che cosa debba essere l’arte nell’epoca che sarà la più antiaccademica che si sia mai data.L’aver raggiunto una maturità artistica con un po’ di ritardo rispetto alla norma, mi ricorda, per altri versi, Degas, il quale però era ricco di famiglia e si poteva permettere di viaggiare in Italia cercando il segreto della grande pittura. Matisse invece guarda Cézanne: si capisce in quel disegno che sconcertò i suoi colleghi d’accademia e anche qualche docente. È un nudo maschile, la cui memoria ritorna anche nella scultura Il servo, bronzo del 1903 che rimanda al tandem Michelangelo-Rodin.Matisse doveva sentirsi vecchio già a quell’età. L’Autoritratto del 1900, quando ha trentuno anni, sembra quello di un uomo ben più maturo. Si dipinge con lo sguardo serio  e l’atteggiamento composto di chi scruta nel profondo le cose che ha di fronte; in un altro Autoritratto a matita, stesso anno, l’aria seriosa è stemperata da tratti più marcati, quasi caricaturali, un volto vagamente sulfureo e inquisitore. Sono gli anni in cui Matisse avvia quel processo di semplificazione del linguaggio che culminerà mezzo secolo dopo nei disegni e nei vetri della Cappella di Vence e, già prima, nei papiers collés e nelle gouaches découpées, di cui in mostra abbiamo un riflesso nell’edizione del libro d’artista «Jazz» pubblicato da Tériade nel 1947.Dire che la pittura di Matisse si modula sul jazz è persino una banalità, ma di fatto quell’opera è anche un esplicito riconoscimento di poetica. E siccome un genio non si adegua mai agli stereotipi, se i glissando e altre ritmicità jazzistiche erano viste, ancora mezzo secolo fa, come retaggio di una cultura “barbara” che aveva distrutto la musica concedendosi a sonorità figlie di un erotismo lussureggiante – da cui la nota battuta «il jazz ha ucciso il valzer lento» (sul versante colto, va ricordata la stroncatura di Adorno, frutto di una sordità selettiva verso quel tipo di musica) –, ecco che Matisse sfugge a ogni accusa componendo un raffinatissimo canto visivo ai miti fondatori dell’uomo europeo, tra cui il circo.La mostra di Ferrara è frutto di un impegno che fa onore al nostro Paese. Tanti prestiti da importanti musei stranieri, che però mettono in evidenza la sordità dell’Italia verso Matisse. In catalogo Giuseppe Di Natale ripercorre questa «(s)fortuna critica». Si spiega, per carità. Nella patria della romanità, del classicismo solidificante, della pesantezza che cammina accanto alla tragicità, della dipendenza del linguaggio visivo dal potere (temporale e spirituale) che vuole parlare al popolo, ecco che Matisse rischia persino la sindrome buddhista. Ci sarebbe da scrivere a lungo. E cosa fa Matisse fin da quando torna in accademia a disegnare per disporre dei modelli che non ha? Scompone, semplifica, torce, concentra via via il segno rendendolo laconico, quasi decorativo per la sua bellezza, ma altamente espressivo. Questa leggerezza – c’è solo lo spazio di ribadirlo en passant – ha un contrappunto non meno sublime nella sua scultura. La pesanteur viene sottoposta a una sottrazione di materia, come nella celebre e dibattuta La serpentina del 1909, dove la figura è il puro distillato delle masse che disegnano spazi e ritmi con una dialettica interna all’idea stessa di scultura. Matisse è, a ben vedere, il più importante scultore francese dopo Degas, del quale raccoglie il testimone con una idea pacificata rispetto alla violazione dei baricentri tipica di Degas.In mostra vi sono alcuni pezzi straordinari, anche il terzo dei quattro bronzi del Nudo di schiena (1913-16), un capolavoro dell’arte plastica (ma, appunto, bisognerebbe vederli tutti e quattro insieme per misurarne la forza e la bellezza). Resta un entusiasmante problema critico comprendere l’abilità di Matisse nel tenere insieme pesantezza e leggerezza di due arti sorelle, ma anche estremamente diverse nei fondamenti concettuali. E Vence diventa il punto (finale) da cui ripartire.
Ferrara, Palazzo dei DiamantiMatisse. La figuraFino al 15 giugno
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