giovedì 2 ottobre 2014
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In questa intervista il pittore francese racconta l’idea della Cappella di Vence «Cercavo la sintesi del mio lavoro e volevo dare a chi entra un senso di leggerezza. Non dunque: “fratelli, bisogna morire”, ma “fratelli, bisogna vivere”» Perché avete decorato la cappella di Vence? «Perché da molto tempo volevo sintetizzare il mio contributo. Allora ho colto questa occasione. Ho potuto fare, nello stesso tempo, del-l’architettura, delle vetrate, dei grandi disegni murali su ceramiche, e riunire tutti questi elementi, fonderli in un’unità perfetta. Ho dotato questa cappella di una cuspide che ha più di dodici metri di altezza. E questa cuspide – in ferro forgiato – non appesantisce la cappella ma, al contrario, le dona altezza. L’ho fatta come un disegno – un disegno su un foglio di carta – ma è un disegno che cresce. Quando si vede una ciminiera che fuma, verso la fine della giornata, si osserva questo fumo che sale e sale... e non si ha affatto l’impressione che si fermi. È un po’ il senso che ho voluto dare con la mia cuspide. Lo stesso per l’interno, per l’altare: il sacerdote è collocato davanti al pubblico. Occorreva dunque decorare l’altare in modo leggero, allo scopo di permettere all’officiante di vedere i suoi fedeli e ai fedeli di vedere lui. Vi è, dunque, in ogni elemento una leggerezza che corrisponde a questo bisogno. La leggerezza consente un sentimento di rilassamento, di elevazione; tanto che la mia cappella non è: “fratelli, bisogna morire”. Al contrario: “fratelli, bisogna vivere!”». Sono consapevole di formulare male la mia domanda: pensate che esista un’arte religiosa? «Tutta l’arte degna di questo nome è religiosa. Che sia una creazione fatta di linee o di colori, se questa creazione non è religiosa, non esiste. Se questa creazione non è religiosa, non si tratta d’altro che di arte documentaria, di arte aneddotica... che non è più arte. Che non ha niente a che fare con l’arte. Che deriva da una certa epoca della cultura, per spiegare e dimostrare, a gente senza educazione artistica, cose che potrebbero notare senza che si abbia bisogno di dirglielo. Gli spettatori sono pigri di spirito. Bisogna mettere sotto i loro occhi un’immagine che lasci dei ricordi e li spinga anche un po’ più lontano... Ma questa è un’arte di cui noi ora non abbiamo più bisogno. È superata». Quando fate una cappella, quando la decorate, sapete che in quella cappella entrerà un uomo che va a vedere la pittura, le decorazioni, che si troverà in un certo ambiente e assumerà un certo atteggiamento. Cosa cercate di comunicargli? Sentite un dovere nei suoi confronti? Questo dovere, pensate di averlo ugualmente quando mostrate soltanto una pittura da cavalletto priva di scopi religiosi, o una pittura murale che ha soltanto uno scopo decorativo? «Voglio che i visitatori della cappella provino un alleggerimento dello spirito. Che, anche senza essere credenti, si trovino in un ambiente dove lo spirito si elevi, dove il pensiero si schiarisca, dove il sentimento stesso sia alleggerito. Il beneficio della visita verrà puntualmente, senza che ci sia bisogno di battere la testa per terra». Questo beneficio non pensate di procurarlo anche a chi vede una tela? «È ovvio. Un quadro che non generasse questo sentimento non esisterebbe. Un quadro di Rembrandt, del Beato Angelico, il quadro di un buon artista, suscita sempre questa specie di senso di liberazione e di elevazione dello spirito. Non perché il quadro è un quadro da cavalletto esso sfugge a questa necessità. Che cos’è un “quadro da cavalletto”? Se volete è una pittura che si tiene nelle mani. Ma questa pittura deve ora trascinare lo spirito dello spettatore molto più lontano del quadro. Non concepisco una pittura priva di questa qualità. Altrimenti, è un’immagine. Ora, al giorno d’oggi, grazie alla fotografia, si fanno delle belle immagini – anche a colori – e il dovere dell’artista, del pittore, è di fornire di più; ciò che la fotografia non permette». La pittura di Rembrandt di cui avete parlato, per esempio, non comunica sempre serenità. Quella del Greco comunica sovente l’inquietudine. Ora, avete detto, avete scritto – si è citato cento volte il passaggio –: «Non voglio inquietare». «Certamente. Il mio ruolo, credo, è donare sollievo. Perché io stesso ho bisogno di sollievo. La pittura di Rembrandt, evidentemente, è una pittura in profondità. È una pittura del Nord, una pittura dell’Olanda, delle Fiandre, che non possiede la stessa atmosfera che abbiamo noi, in Francia o nel Mediterraneo... il Mediterraneo è, dopotutto, vicino a Parigi. El Greco è uno spirito tormentato, che esteriorizza il suo tormento e lo mette su tela. Certo questo tormento si comunica allo spettatore. Ma si può pensare che El Greco abbia dominato il suo tormento, la sua inquietudine, e li abbia cantati come Beethoven nella sua ultima sinfonia». Come mai nell’opera di molti pittori contemporanei, il volto umano diventa anonimo? «È riferendovi a me che dite questo? Perché qualche volta non metto occhi e bocca ai miei personaggi?... Ma perché il viso è anonimo. Perché è l’espressione che regge ogni quadro. Le braccia, le gambe, ciascuna di esse sono linee che agiscono come in un’orchestra, un registro, dei movimenti, timbri differenti. Se si mettono degli occhi, un naso, una bocca, ciò non è di grande utilità, viceversa, paralizza l’immaginazione dello spettatore e lo obbliga a osservare una persona secondo una certa forma, una certa rassomiglianza ecc., mentre se voi date linee, valori, forze, lo spirito dello spettatore si infila in un dedalo di elementi multipli... e allora... la fantasia è libera da ogni limite!».
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