giovedì 9 ottobre 2014
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Una pericolosa «seduzione del diavolo», capace di trasformare «gli uomini in fannulloni» e rendere «la terra sterile». Hernando Arias de Saavedra, amministratore di Buenos Aires, liquidò il mate come «vizio abominevole». Era il 20 maggio 1616 e tale giudizio portò il primo governatore autoctono del Continente a mettere al bando quella che veniva considerata una pericolosa erba. L’aveva “scoperta” circa mezzo secolo prima l’esploratore basco Domingo Martínez de Irala che, nel 1554, durante una spedizione nel Guairá, nell’attuale Paraguay, notò come gli indigeni della regione, perlopiù guaranì, bevessero spesso da «recipienti di zucca un’infusione di foglie di un albero chiamato Kaá». Furono gli spagnoli a battezzare la stessa pianta mate, da matí parola quechua per indicare quelle tazze primordiali. E furono sempre i conquistatori a temerne la capacità di diminuire la fame e la stanchezza. Tanto che l’inquisizione arrivò a condannare l’erba come «superstizione diabolica». Impossibile immaginare che, nei decenni successivi, l’infusione sarebbe diventata la bevanda simbolo dell’America Latina. È emblema di identità nazionale in almeno quattro Paesi: Argentina, Brasile, Paraguay e Uruguay. E, grazie alla predilezione di papa Francesco, ora il mate è sta sbarcando anche in Europa. È curioso che sia stato il primo pontefice gesuita a far attraversare l’Atlantico all’infusione. Non è la prima volta che la Compagnia riesce a portare l’erba paraguayana, come la chiamavano, nel Vecchio Continente. Nel Settecento, le "riduzioni" – villaggi in cui i nativi venivano evangelizzati dai religiosi e sottratti allo sfruttamento dei conquistatori – producevano tanto mate che, oltre ad alimentare il commercio interno, la quantità eccedente arrivava via Buenos Aires nei porti spagnoli. Da dove, poi, veniva venduta nel tentativo di far concorrenza al te degli inglesi. Da qui il soprannome “tè dei gesuiti”. Un appellativo quanto mai azzeccato. Fu proprio l’ordine fondato da sant’Ignazio a individuare il segreto per coltivare la pianta di mate. Per secoli, prima del loro arrivo nelle regioni del Rio de la Plata, a partire dal 1585, questa cresceva spontaneamente nel verde avvolgente delle montagne di Mbaracayú, 500 chilometri a nord della capitale paraguayana Asunción. Un luogo selvaggio e isolato: per gli spagnoli era quasi impossibile accedervi. Solo gli indios vi riuscivano e raccoglievano le foglie. Ma sempre in quantità insufficienti per avviare una produzione su vasta scala. Inizialmente diffidenti verso la misteriosa erba, nei primi decenni del Seicento, ne compresero l’utilità in funzione “anti-chicha”. Quest’ultima, tuttora diffusa, è un potente liquore derivato dalla fermentazione del mais. La proibizione del mate – e la condizione di semischiavitù – indusse i nativi a rifugiarsi nell’alcol, in particolare in quello più a buon mercato: la chicha, appunto. Il dilagare dell’alcolismo portò la Compagnia a rivalutare il mate. Che non solo non dava dipendenza ma alleviava almeno un po’ le fatiche quotidiane degli indigeni. «Dà loro forza per lavorare» per questo «bevono l’erba di tre ore in tre ore», scriveva padre Antonio Ruiz de Montoya nella Conquista espiritual, fedele testimonianza della colonizzazione del Plata. Nel XVII secolo, i gesuiti crearono un’efficace tecnica di coltivazione del mate, basata sulla corretta distanza tra i semi e la giusta idratazione dei germogli. I risultati furono sorprendenti: l’erba cresceva rigogliosa e di qualità migliore di quella spontanea. In breve, il mate divenne il motore economico delle “riduzioni”, che includevano ormai una popolazione di 90mila nativi. In queste isole di libertà sparse tra Argentina, Paraguay e Brasile, in cui gli indios vedevano riconosciuti i loro diritti, crescevano oltre 700mila piantine.Legato a doppio filo alle sorti della Compagnia, il mate declinò con l’espulsione di quest’ultima dalle Americhe, decretata da Carlo III di Spagna nel 1767. Le riduzioni furono inglobate dai famelici latifondisti, incapaci, però, di coltivare l’erba. La produzione subì un drastico calo, fin quasi ad azzerarsi. Se il mate non è scomparso, come buona parte dei suoi consumatori originari, gli indios, si deve al ricercatore tedesco Federico Neumann che, alla fine dell’Ottocento, ideò nuove tecniche di produzione. E le sperimentò nella colonia di “Nuova Germania”, fondata da Bernhard Forster e sua moglie, Elisabeth Nietzsche, sorella del noto filosofo. Dal 1911, il mate ha riconquistato l’America. Ora, dopo un plurisecolare esilio, il “tè dei gesuiti” è tornato in Europa.
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