mercoledì 8 settembre 2010
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Il Risorgimento lontano dalla polverosa retorica scolastica, le contraddizioni, le speranze, le disillusioni, le divisioni, i tradimenti e le violenze che hanno preceduto l’unità d’Italia, le lotte feroci tra i padri della patria. Noi credevamo di Mario Martone, in concorso ieri a Venezia e accolto da una vera e propria ovazione in conferenza stampa, racconta tutto questo. E lascia il segno con una tesi di fondo amarissima: il nostro paese, «gretto, superbo e assassino» nasce da radici malate. Sceneggiato dallo stesso Martone con Giancarlo Di Cataldo, basato su materiali storici rigorosamente rispettati e ispirato all’omonimo romanzo di Anna Banti, il film che affronta il passato per dipingere inevitabilmente anche il presente, racconta il processo risorgimentale per l’Unità d’Italia dal 1828 al 1862 attraverso le vite di tre giovani cospiratori e rivoluzionari combattuti tra rigore morale, pulsioni omicide, ideali per i quali sacrificare la propria vita e quella degli altri, come fece Giuseppe Mazzini, la figura più controversa del film.«Per la polizia di tutta Europa, ma anche per Marx ed Engels, Mazzini era responsabile di una strategia considerata terrorista – spiega Martone – ma d’altra parte le guerre per l’indipendenza di un paese sono cosa cruenta, lo sanno bene anche gli Stati Uniti. Non è un caso che l’idea del film mi sia venuta proprio dopo l’11 settembre, che invita a riflettere sul rapporto tra terrorismo e lotta per l’identità nazionale. Il fondatore della Giovine Italia allevava schiere di ragazzi disposti a sacrificare la vita per un’idea e se devo proprio fare un parallelo, allora avvicinerei questa figura storica, ma al tempo stesso shakespeariana, ai fanatici islamici o ai martiri cristiani. Non dimentichiamo che Mazzini era profondamente religioso e per scegliere di morire o far morire qualcuno è necessaria una spinta mistica».Le questioni messe in campo dalla pellicola interpretata tra gli altri da Luigi Lo Cascio, Valerio Binasco, Francesca Inaudi, Luca Zingaretti, Toni Servillo, Luca Barbareschi, Renato Carpentieri, sono molteplici, complesse e tra queste c’è quella della dicotomia nord-sud. «Una ferita che non si è mai rimarginata – dice ancora Martone – ma credo che l’opposizione vera sia quella tra i repubblicani e i monarchici, tra l’Italia democratica e quella autoritaria. Il nostro paese è stato tradito sul piano democratico e per l’appuntamento con la repubblica abbiamo dovuto attendere 100 anni. Un ritardo che ha pesato sulla maturazione del nostro paese, processo non ancora terminato». Però ci tiene a sottolineare il regista: «Nonostante la visione critica su questo periodo storico, faccio mia la tesi del giovane Saverio, personaggio del film: sono rivoluzionario perché all’unità d’Italia ci credo veramente. E dire verità scomode non vuol certo dire togliere peso e autorità a figure storiche come Mazzini».Sui rapporti con la contemporaneità insiste invece Luca Barbareschi che accosta Mazzini a Toni Negri («gente che ha vissuto la rivoluzione sulla pelle degli altri») e giudica uno psicotico chi si ostina a considerare la Padania uno stato. «Nel titolo del film – aggiunge poi Lo Cascio – c’è tutto il rammarico per un sogno che poteva realizzarsi in maniera diversa. L’Italia è il frutto di un lungo travaglio e di un parto infelice».
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