mercoledì 29 marzo 2017
Conversazione con il regista sul suo “Il sindaco del Rione Sanità”: «L’attore spesso oscura il drammaturgo Il secondo per me è più interessante»
Una scena da «Il sindaco del Rione Sanità» di Martone. «De Filippo autore indaga l’essere umano sul modello in senso assoluto di Shakespeare In lui convivono sociale, tragedia e grottesco: fantasmatico come Beckett In questo spettacolo cerco la coralità che il capocomico, con il suo potere assoluto e accentratore, finisce per nascondere», spiega il regista.

Una scena da «Il sindaco del Rione Sanità» di Martone. «De Filippo autore indaga l’essere umano sul modello in senso assoluto di Shakespeare In lui convivono sociale, tragedia e grottesco: fantasmatico come Beckett In questo spettacolo cerco la coralità che il capocomico, con il suo potere assoluto e accentratore, finisce per nascondere», spiega il regista.

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Per analogia. Appena calato il sipario del Teatro Gobetti di Torino sul trascinante Il sindaco del Rione Sanità di Mario Martone, euforizzato dal ritmo e dalla tensione degli attori, e dal catartico effetto di qual palco che pure sappiamo «di che lacrime gronda e di che sangue», penso a Il grande Gatsby di Luhrmann-Di Caprio: un testo classico (nel caso di Gatsby il capolavoro di Fitzgerald e uno dei vertici di sempre) è portato dal regista a un’intensificazione dinamica, un’accentuazione barocca del tragico, in un ritmo danzante di delirio e miseria. Per analogia, ho premesso: pare che il palcoscenico della vita, gli States dei ruggenti Anni Venti e una Napoli di oggi, e di sempre, manifestino con furore e rabbia la miseria del mondo, la presenza del male in forma di interesse, usura legale o illegale, prevaricazione, sgretolamento morale.

Per analogia ancora. Il sindaco (Don Antonio Barracano) di Martone, non più personaggio crepuscolare o liminare di un’età passante, come nella tradizione eduardiana, una sorta di personaggio alla Thomas Mann, qui sembra un samurai corrotto e compromesso di un discepolo di Kurosawa, un corrotto che alla fine, di colpo, nobilmente, si riscatta. Certo la napoletanità pulsante barocca della regia carica di tensione il dramma, penso alla Napoli truculenta e magica di Basile e de Lo cunto de li cunti, tra fantasma e realismo, fantasia e terrenità ancestrale. Quella Napoli che Martone ha inscenato nei bassifondi della discesa dolorosa di Giacomo Leopardi, nel suo bellissimo film Il giovane favoloso. Una discesa agli inferi napoletanamente paganeggiante, ma paganamente aggrappata alla vita. Questo in scena è uno spettacolo corale elisabettiano e cinematografico nella drastica dinamicità del suo svolgersi, nell’abolizione di quei troppi secondi di silenzio in più, che isolano spesso i personaggi di Eduardo in personaggi eduardiani.


Martone accentua la Commedia Umana, senza personaggi minori o comparse, evitando il rischio che la ripetizione del modello eduardiano può correre. Per tentare una via nuova e necessaria, accanto a quella tra- dizionale, rispettabilissima, il regista sceglie una via forte: «Questo spettacolo è stato l’occasione per approfondire Eduardo come autore e anche come persona. Dimenticando Eduardo attore, capocomico, parlando con il suo puro testo, emergono due spinte che non spesso convergono in uno stesso autore. Una porta a indagare l’essere umano in assoluto, che appunto studia l’uomo a 360 gradi, con le sue miserie debolezze, i suoi lampi di forza i suoi aneliti…». Questo è il modello shakespeariano, l’uomo a tutto campo. «E accanto a questo – afferma il regista – Eduardo si rivela un formidabile scrittore sociale. Da giovane si recava spessissimo in tribunale. Passava ore a osservare».

Non sembra però un’attenzione da romanziere come quella del giornalista Daniel Defoe. «No: perché passava ore in tribunale? In tribunale gli esseri umani si rivelano attraverso la loro rappresentazione, spesso le menzogne che devono o intendono inscenare ». Quello di Eduardo è un teatro tragico. «Tragico, a voltro te grottesco, e poi il tribunale è spesso una grande scena dell’ingiustizia: chi ha più mezzi, chi meno, o niente: denaro, conoscenze, facondia, famiglia, o povertà, analfabetismo. debolezza… Lo sguardo di Eduardo sulle situazioni sociali era molto forte. Ma si fondeva con l’indagine dell’uomo in assoluto. Questa alchimia risulta evidente al massimo grado nel Sindaco del Rione Sanità. In primo luogo il testo ha molti personaggi, e nessuno secondario. Si tratta quindi di ricreare una coralità. Che la tradizione eduardiana non consente: è piramidale. In qualunque delle sue commedie il mondo, anche impersonato da attori bravissimi, ruota attorno all’autore capocomico demiurgo. L’occasione di questo spettacolo mi consentiva di guardare solo a Eduardo drammaturgo, occupandomi dell’articolazione tra i diversi personaggi. Certo, la coralità dello spettacolo regge se hai al cen- un formidabile Francesco Di Leva. Separare il drammaturgo dal capocomico era un’operazione necessaria e attraente. Questo con la massima stima per la tradizione canonica, ricca e piena e vitale. Ma accanto alla quale devono nascere altri, nuovi percorsi interpretativi, come ammirai nella seconda rappresentazione di Natale in casa Cupiello di Antonio Latella. Coraggiosa, utile, efficace».

Ma se dovessimo riassumere, in una di quelle sintesi un po’ schematiche, chi è il drammaturgo Eduardo? Per me, ad esempio, è principalmente un autore e frequentatore di fantasmi. Intendo Strindberg… E poi, oppure, un collega di Beckett, che conosce il nulla, ma vi resiste… «Il fantasmatico è certo una chiave di Eduardo. Concordo pienamente. Ma attenzione: è un fantasmatico connesso a una forte dimensione sociale. Un connubio impensabile in qualunque luogo del mondo che non sia Napoli…». Allora non è un connubio è un elisir. «A Napoli percepisci la coesistenza di fantasmatico e sociale: non nei teatri, intendo. In città. Fatta questa precisazione, concordo su affinità con Beckett. Eduardo resiste, mette in scena, inventa personaggi. Qualcosa trattiene, mentre qualcosa si perde». Beckett resiste con la parola. «Certo. Due autori diversissimi, ma che mettono in scena una forma di resistenza al nulla, alla disgregazione».

Lo spettacolo rappresenta un Eduardo nuovo ma fedele. Non alla propria immagine codificata (che Martone apprezza), ma alla sua profondità, a quella parte di ogni autore che solo il testo sa custodire, e che l’autore stesso a volte può sottovalutare o fraintendere. Parlo di ogni autore: sa scrivere il libro, ma il suo libro ne sa più di lui. Il crescendo dello spettacolo martoniano, ci svela anche un Eduardo meno problematico, meno rassegnato, più elementarmente elisabettiano. La scelta di portare in scena, accanto a attori di primo livello, giovani di un quartiere dannato di Napoli, oltre al suo indiscutibile significato sociale (il teatro porta il male in scena, come lo sport fa con la guerra, esorcizzandolo) si rivela drammaturgicamente felice: nulla di dilettantistico (Martone è maniaco perfezionista), ma una forte ventata di vita e gioventù. E speranza, che non guasta mai.

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