venerdì 7 agosto 2015
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«Una mezza giornata libera alla settimana, uscendo dal luogo del nostro impegno, in cerca della solitudine e della preghiera. Respirare, dare un calcio a tutte le preoccupazioni quotidiane. Io andavo nei sentieri di montagna, da solo, camminando, là si respira molto e si torna con qualche idea più chiara. Una stradina di montagna. Dio ci avvolge e sgrana con noi un lento rosario. Il Padre nostro al fondo della decina è come un bivacco. Una sosta per ristorarsi e riprendere il fiato, prima di ricominciare a salire. Abbiamo bisogno di bivacchi nel cammino della vita». È l’ottobre 2009: il cardinale Carlo Maria Martini, arcivescovo ormai emerito di Milano, affida queste parole a Le ali della libertà. L’uomo in ricerca e la scelta della fede (Piemme, pagine 109, euro 13,50). La montagna è lo sfondo, la necessità di creare ordine nella propria vita il fuoco del discorso: ordine che sia aiuto «per avere momenti di ripresa», ordine da generare attraverso personalissime regole di vita. Il biblista adottò anche questa: sospendere «ogni settimana», «il giovedì mattina», «ogni impegno», e fare «una camminata in montagna, per stare all’aria aperta, lontano dai luoghi e dai compiti quotidiani, per respirare e sgombrare la mente».Laura Boella la ricorda nel libro che da fine mese omaggerà il gesuita nel terzo anniversario della scomparsa (Autori vari, Martini e noi. I ritratti inediti di un grande protagonista del Novecento, a cura di Marco Vergottini, Piemme, pagine 364, euro 17,50), ma già oggi la svela e argomenta a Madonna di Campiglio (ore 17.30, salone Hofer). Lo fa nell’ambito del “Mistero dei monti”, il festival che fino al 24 agosto – nel cuore delle Dolomiti di Brenta – susciterà la riflessione sul rapporto tra le terre alte e la città. Ecco allora il contributo di colui che resse la diocesi con il maggior numero di battezzati al mondo, assiso sulla cattedra della seconda metropoli italiana: il cardinal Martini, che «in molti dei suoi scritti», ricorda la docente di filosofia morale alla Statale di Milano, presenta «la passione per la montagna...» come immagine della salita, della preparazione, della solitudine che spinge in alto. Lei, piemontese nata sotto pascoli e rocce, può comprenderlo più di altri. E non ne fa mistero: «Condivido lo stesso bisogno fisico e spirituale del camminare...», perché «camminando corpo e mente vanno insieme: le gambe si muovono, il respiro si accelera e allo stesso ritmo si spalancano gli occhi della mente, si vede di più, dentro e fuori». C’è dunque da crederle, quando vede nel Martini montanaro «un’incarnazione dell’attesa, esperienza vissuta in prima persona, sempre di nuovo iniziata, ricerca della vigile attesa che compare in molti suoi scritti con un esplicito significato critico nei confronti di molte forme del vivere contemporaneo». E le «idee più chiare» che l’ascesa ispirava all’arcivescovo? «Erano probabilmente più belle e più vere – azzarda Boella – perché in esse, che dovevano parlare a un presente oscuro, facevano liberamente irruzione l’ampio orizzonte e la luminosità dei paesaggi alpini, messaggeri dell’Assoluto che fu al centro della sua vita». Ma attenzione: l’arcivescovo di Milano «non avrebbe voluto vivere in montagna, e non aveva una grande tecnica alpinistica». Lo ricorda un altro gesuita, suo compagno di tante avventure: «Diversamente da me che ero più efficientista – scandisce ad Avvenire padre GianPaolo Salvini, anticipando quanto racconterà oggi a Campiglio in compagnia anche di Vergottini – a lui non interessava arrivare in cima. Anzi, temo non si ricordasse nemmeno le vette che avevamo raggiunto insieme. Piuttosto, intendeva l’ascesa come oasi di pace favorita dall’intermediazione della natura». Ciò non toglie che il biblista si cimentasse anche «in arrampicate con passaggi di terzo grado», di media difficoltà, come avvenne sul Catinaccio: «L’arcivescovo era andato a visitare alcune parrocchie milanesi durante il loro campo estivo in val di Fassa – ricostruisce l’ex direttore de La civiltà cattolica – e queste, conoscendo la sua passione, vollero mettergli a disposizione una guida alpina». È da qui che Salvini inizia ad attingere alla memoria dei suoi 79 anni, ricordando che «io sì, arrampicavo, ma non sono mai stato un fulmine di guerra». Dunque, «quando volevo accompagnare il cardinale su vie impegnative, per maggior sicurezza di tutti chiamavo un nostro confratello: padre Filippo Clerici», che morì, purtroppo, nell’aprile 2008, precipitando in Valsassina dal Grignone. Fa sorridere l’episodio di Civenna, una frazione di Bellagio (Como): quella volta il gesuita giornalista non c’era, ma il biblista amico di Gerusalemme fu così colpito dall’accaduto che subito volle farne partecipe la sua guida. «Il parroco – riferisce Salvini tradendo un mezzo sorriso – aveva proposto al cardinale un’ascensione al Ghisallo, sopra Como». Ebbene. «Al suo arrivo, l’arcivescovo trovò tutto il paese schierato». «E questi?», chiese Martini. «Vengono con noi», rispose gongolante il sacerdote. Pare che il successore di sant’Ambrogio apprezzò molto l’attaccamento di quel pastore alla sua comunità. Un po’ meno l’escursione. Tanto che, per una volta almeno, non vide l’ora di rientrare all’ombra della Madonnina svettante con la sua alabarda. Quella Vergine in cui l’attuale arciprete del Duomo, monsignor Gianantonio Borgonovo, vede «l’immagine biblica della Chiesa che solca la storia in attesa della glorificazione finale». Quella stessa Madre a cui Martini elevò una miriade di «rosari itineranti», sul sentiero per il bivacco di vetta che é l’eterno abbraccio del Padre nostro.IL LIBRO - LA MEMORIA DI 110 "RITRATTISTI"La montagna è solo una delle tante sfaccettature, così come Laura Boella e padre Gianpaolo Salvini sono solo due tra i 110 “ritrattisti” di "Martini e noi", a cui cui bisogna aggiungere anche il curatore, Marco Vergottini. Dunque 110 più 1: numeri biblici, spiega il teologo laico. Se infatti «tutti sanno che il numero 1 simboleggia Dio – così scrive nell’introduzione – forse qualcuno non rammenta che centodieci è il numero degli anni vissuti da Giosuè, che condusse il popolo di Israele nella terra promessa». Scaturisce da questa icona la cifra dell’opera: «Custodire la memoria riconoscente e rilanciare l’impegno di continuare il dialogo e l’amicizia» con l’arcivescovo Carlo Maria. All’appello di Vergottini hanno risposto autorevoli membri della Chiesa, della cultura, della società, fissando su carta ciò che conservano nel cuore, «donne e uomini che hanno avuto il dono di collaborare con lui e di frequentarlo»: dal cardinale Gianfranco Ravasi al filosofo Massimo Cacciari, dal giornalista Aldo Cazzullo al fondatore del monastero di Bose Enzo Bianchi. Passando per Giulio Giorello, Ferruccio de Bortoli, Gad Lerner e così via. L’opera è scandita da sei “stanze”: l’intellettuale e la polis, il credente e la vita spirituale, il biblista e Gerusalemme, il vescovo e la sua Chiesa, l’uomo del dialogo ecumenico e interreligioso, il pastore e le forme della comunicazione.

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