sabato 7 giugno 2014
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Nella città europea i luoghi che hanno ospitato gli spazi del «sacro» hanno sempre goduto di una centralità rispetto al tessuto edilizio dell’intorno, mentre oggi agiscono, nel migliore dei casi, come strutture complementari dentro un agglomerato spesso privo di ogni ordine gerarchico-istituzionale. Le nuove strutture ecclesiastiche vengono interpretate come momenti di pausa in un’organizzazione urbana che privilegia il gran correre quotidiano e, quando trovano una loro legittimazione nella città, vengono riconosciute e valutate soprattutto per i valori simbolici che le relazionano ad una tradizione storico-artistica. È in questo nuovo contesto, caratterizzato da un mutato rapporto di forza e di influenza fra le differenti istituzioni umane presenti nella città, che l’architetto è chiamato a ritrovare nuovi significati tali da consentire all’opera costruita di dialogare con la frammentarietà e la fragilità dell’attuale cultura.Due tipologie edilizie hanno caratterizzato lungo l’arco dei secoli la tradizione cristiano- occidentale: quella del «monastero» e quella della «chiesa». Il monastero, ancora oggi, sembra meglio rispondere all’attuale situazione urbana in virtù della sua condizione di «isola» in grado di soddisfare la propria funzione in maniera autosufficiente, interprete di un modello di vita ben strutturato rispetto a quelli confusi e nevrotici della città contemporanea. Si può forse anche osservare che il progressivo distacco avvenuto fra il modello di organizzazione spaziale del monastero (semplice, con poche regole di comportamento, dentro un territorio compiuto) rispetto a quello dell’attuale spazio della città (complesso, con infiniti comportamenti, dentro un territorio in continuo sviluppo) giovi ad una reciproca convivenza.La società riconosce la «compiutezza» del monastero proprio in funzione della chiarezza dei suoi obiettivi e della credibilità dei suoi adepti. Per questo il modello architettonico, pur nelle varianti assunte nel corso della storia, viene percepito come una costante coerente, un riferimento per la chiara distinzione della sua organizzazione rispetto al tessuto quotidiano dell’intorno. La logica dei «comparti finiti» consolida inoltre l’autonomia delle funzioni senza interferenze dirette con il tessuto esterno e risulta una componente gradita sia alla città sociale che alla città fisica.La presenza di «contenitori » distinti evidenzia i ruoli nelle differenti parti. Il monastero in quanto spazio di vita, di lavoro e di preghiera per uomini o donne che hanno scelto di condividere una vita comuni-taria, è un esempio di grande interesse di fronte all’atomizzazione degli attuali comportamenti sociali. Quella del monastero è una struttura architettonica che si presenta come un’oasi di pace e di silenzio, discreta e apprezzata.  La forma architettonica è convincente soprattutto in funzione della totale osmosi fra il contenitore ed i contenuti; si riafferma in tal modo una vocazione millenaria che la città percepisce come valore di una memoria che le appartiene, una presenza lontana dagli attuali comportamenti ma che risuona amica. Anche quando l’innovazione del linguaggio si è presentata in modo eclatante (si pensi al convento di La Tourette di Le Corbusier) è stata accolta dalla comunità come segno positivo rispetto all’evolversi della cultura artistica. Diverso e più complesso il discorso sui significati che assume l’architettura della chiesa nello spazio del nostro tempo. Dopo secoli di straordinarie testimonianze di arte e di fede, l’architettura ecclesiastica si ritrova oggi immersa in un mare di contraddizioni che indicano più in generale un difficile confronto con l’attuale cultura. I due interlocutori indispensabili per l’elaborazione di un progetto, la committenza ed il progettista, riflettono entrambi questa condizione di crisi: la committenza il più delle volte con un’approssimazione che l’ha portata a un’estrema disinvoltura nell’elaborare i contenuti dei programmi dopo il Concilio Ecumenico Vaticano II, ed i progettisti colti del tutto impreparati, orfani di una continuità storica dopo la «cesura » avvenuta nella cultura artistica del XX secolo. Il tema della costruzione di  uno spazio d’incontro per un’attività rivolta al «sacro» è spesso valutato oggi in termini unicamente d’immagine o di stile, considera il fatto architettonico come un involucro edilizio a sé stante, indipendente dalle relazioni che comunque vengono a stabilirsi con l’intorno e con la storia del proprio contesto. Molte perplessità scaturiscono proprio da questo approccio che vede l’architettura della chiesa unicamente come servizio liturgico e non come riflesso di un’attesa e di una speranza che la comunità esige dalla cultura del proprio tempo. Il limite delle recenti realizzazioni è evidenziato dall’inadeguatezza che riconosciamo al contesto del territorio sociale e al ruolo  part-time in cui è stata relegata la chiesa stessa, sempre più vicina a un’entità di servizi che non a una presenza simbolica full-time capace di testimoniare i valori dello spirito. La sua incompiutezza tipologica è evidente nel ruolo subalterno che svolge rispetto ad altre strutture (il nucleo storico, le vie di traffico, la piazza, il parco, il centro commerciale, lo stadio... ) che vengono interpretate invece come componenti strutturali del tessuto urbano. Nella stratificazione storica e nella successiva sostituzione edilizia, la città europea ha progressivamente emarginato i luoghi dello spirito di cui i poli religiosi erano punti di riferimento. Oggi esiste una separazione fra la vocazione di una nuova chiesa e l’apatia del contesto con il quale dovrebbe interagire che viene percepito come disagio spaziale ed emotivo. Per ricucire questa frattura l’architettura deve esprimersi al meglio attraverso le più alte forme espressive. Certo, la scommessa di costruire una chiesa dopo gli sconvolgimenti etici ed estetici attuati dalle avanguardie del secolo scorso (Duchamp, Picasso e altri) risuona azzardata; non è il nostro compito. Per questo risuonano lontani dalla realtà, stonati e patetici i richiami tesi a invocare un ritorno agli «stili del passato» come toccasana di una presunta verità.Certo, saper offrire il meglio dalla cultura contemporanea, traendo insegnamenti dal passato, non è una questione semplice ma la storia recente ha dato prova di esempi eccelsi (Schwarz, Le Corbusier, Aalto, Kahn, Scarpa, Ando, Siza ... ) che lasciano ancora qualche speranza. L’architettura, come altre forme espressive, porta con sé il mistero del fatto poetico e quindi anche la capacità di stravolgere le logiche razionali.

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