domenica 26 settembre 2010
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La déraison d’amour. Così si intitola il monologo diretto da Lorraine Pintal e interpretato da Marie Tifo che andrà in scena al Piccolo Teatro Studio di Milano dall’1 al 3 ottobre. Il testo, a cura di Jean-Daniel Lafond in collaborazione con Marie Tifo, è tratto dagli scritti di Marie de l’Incarnation, mistica del Seicento, donna d’eccezione. Marie Guyard nasce a Tours, nel 1599, da una famiglia di maestri fornai. Cresce con sei fratelli e sorelle, in un ambiente che lei descrive pio e armonioso. A sette anni fa un sogno: dal cielo "Notre-Seigneur" vola dritto verso di lei, l’abbraccia e le chiede se vuole essere sua. Niente di raro fin qui, ma quel che segue – come osserva Henri Bremond (1865-1933), che di Marie de l’Incarnation ha fatto un grandioso ritratto nella sua Histoire littéraire du sentiment réligieux en France – non è comune. Poche ore dopo il sogno, Marie non riesce più a rappresentarsi i tratti del volto del Signore e, dettaglio ancora più significativo, non ne soffre. «Le parole – scrive Bremond – le bastavano». Per gli esseri spirituali l’udito è un senso più forte della vista e «le parole interiori occupano più spazio delle "visioni"». A diciassette anni Marie sposa un maestro setaiolo, Claude-Joseph Martin, che muore due anni più tardi lasciandole un figlio di sei mesi, Claude, e molti debiti. La maggior parte delle donne del suo tempo, per assicurarsi la sopravvivenza, avrebbe scelto la strada di un secondo matrimonio. Marie invece comincia a lavorare nella società di trasporti fluviali del marito di una sorella, dimostra un particolare talento di amministratrice e, quando il cognato si ritira dagli affari, è lei a prendere le redini della compagnia. Ma nel 1631, nonostante suo figlio sia ancora un ragazzino, decide di ascoltare il richiamo di quelle parole che aveva sentito in sogno ed entra nel convento delle Orsoline di Tours. Non era evidente che una donna del Seicento, una monaca, viaggiasse e si spingesse "oltremare". Eppure, nel 1639, Marie si imbarca per il Canada, la Nouvelle France, e fonda un monastero a Québec. Lo scopo è convertire ed educare le piccole "indiane" della colonia (la sua sarà la prima scuola per ragazze in lingua francese dell’America del Nord). Ma il suo diario e le numerosissime lettere (fitta la corrispondenza con il figlio Claude) sono la testimonianza di un’esperienza più profonda e più importante. Sono la cronaca della costruzione di un mondo nuovo e insieme dell’impatto con una cultura diversa e molto antica; sono il resoconto di difficoltà e di scoperte (tra le opere di Marie ci sono studi sulle lingue amerindie), di battaglie duramente combattute (come quella contro il vaiolo, quando il convento venne trasformato in un ospedale), fino alla morte, a Québec, nel 1672. Sono il racconto limpido e prezioso di una vita e di una donna d’azione e sono insieme la storia straordinaria di una minuziosa indagine interiore, di una estrema ricerca spirituale e di una luminosa capacità di amore, tra le più intense e potenti che ci siano arrivate. Sulla carta Marie ferma "senza sosta" le sue "parole di fuoco", quasi volesse liberarsi della loro forza bruciante. È consapevole della follia d’amore che la tormenta e la illumina: «O mio Amore, cento volte mio Amore, mille volte mio Amore, infinite volte mio Amore… Ah, bisognerebbe vedere il mio cuore a nudo per conoscere l’amabile prigionia del vostro Amore!… Voi ci sigillate gli occhi, ci rapite i sensi». È un amore che la spinge ad agire e che contiene e trascende tutti i termini che lo rappresentano: affetto, simpatia, sollecitudine, devozione, carità, eros. Un amore onnivoro, che arriva a divorarsi. Davanti a simili esperienze, «a questa luce più impietosa delle analisi di un La Rochefoucauld – commenta Bremond –, smorfie devote, romanzi di virtù, affettazioni appena coscienti, mezze insincerità sono polveri che fondono come neve». Noi possiamo intravederne la ricchezza e la dolcezza, ma poi c’è «il silenzio totale, l’unione perfetta nel più intimo dell’anima, in quella zona che, al di là dei concetti e delle parole, al di là di ogni poesia, al di là dell’amore stesso, appartiene solo alla carne e al sangue». Bremond aggiunge: «Confessiamo il controsenso prodigioso al quale andiamo incontro, noi, profani, quando leggiamo i mistici. Inevitabilmente, li riconduciamo alle nostre dimensioni, li mettiamo nell’ordine intellettuale, sentimentale, letterario che, non soltanto non è il loro, ma è, in qualche modo, la negazione di quell’ordine. L’ammirazione che professiamo per una Teresa, per una Marie de l’Incarnation, è di fatto opposta alla loro grandezza reale. Più si innalzano, più ci sfuggono; quando ci sembra tocchino i vertici del lirismo, sono ancora ai balbettamenti dei primi anni. Dove il nostro si ferma, il loro vero sublime comincia». Ma il teatro può avere la forza di dirla questa déraison d’amour.
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