venerdì 28 giugno 2019
Scomparsa nel 2013, l'artista sarda elaborò una poetica di «arte della relazione» dove coinvolgeva nell'opera le persone del luogo. La metafora del filo, dei libri di stoffa e dei telai
L'artista sarda Maria Lai, morta nel 2013

L'artista sarda Maria Lai, morta nel 2013

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Sono andato a scavare nella memoria, non quella cronologica, ma quella delle immagini sedimentate, per vedere se trovavo l’aggancio che mi portava a cercare le origini della poetica della relazione – cara al grande scrittore-filosofo di radici antillane Édouard Glissant – nell’arte che Maria Lai sdipana dagli anni Sessanta in poi attingendo largamente a telai, tessuti, ricami e intrecci che mettono ordine e danno ritmo a quello che una mostra riminese sull’arte del disegno qualche anno fa definiva il “groviglio di segni” ( Krobylos). Poetica che si rispecchia nell’intenzione con cui Maria Lai usa il filo come «materiale e metafora », scrive Luigia Lonardelli.

Bartolomeo Pietromarchi, il direttore della sezione Arte del Maxxi, dove da qualche giorno si tiene una notevole retrospettiva sull’artista sarda, introduce nel discorso nomi che servono a proiettare Maria Lai ai gradi più alti della cultura novecentesca: si va dal “rizoma” di Deleuze e Guattari, alle querce di Beuys, al Cretto di Gibellina di Burri, si allarga lo sguardo sul concettuale (e l’immancabile Arte Povera) e si parla anche della funzione sociale dell’arte e del ruolo (nefasto, diciamolo) dei cultural studies (nelle loro diramazioni gender e postcolonial). È come se questi riferimenti dovessero diventare un abito da cucire – ça va sans dire – sul corpo dell’artista per poter attribuire a Maria Lai la patente di «una delle più innovative e importanti artiste della sua generazione, che ha saputo intravedere e interpretare agli albori dell’era digitale e tecnologica i meccanismi culturali e antropologici alla base della nostra società di oggi». È necessario? Induce interpretazioni fuorvianti? Sembra, piuttosto, la classica excusatio non petita di chi vuole rivalutare qualcuno per troppo tempo sottovalutato. E infatti tutti i saggi nel catalogo edito da 5 Continents, corrono sulla falsariga del risarcimento postumo a Maria Lai, morta nel 2013 all’età di 94 anni.

Dopo la mostra in più sedi tenutasi in Sardegna nel 2014 il suo nome cominciò a emergere con più frequenza nel dibattito critico. E la Biennale di Venezia del 2017 accolse, attraverso un video, la sua performance del 1981 Legarsi alla montagna. Questa performance era stata pensata dall’artista in modo che gli abitanti di Ulassai, in provincia di Nuoro, legassero insieme le loro case con un nastro lungo oltre venti chilometri fino alla montagna; l’opera riprendeva un’antica leggenda secondo la quale una bambina sarebbe sopravvissuta a una frana della montagna grazie ai poteri di un nastro celeste. Era una “scoperta”, in certo modo, e un ritorno, quello di Maria Lai alla Biennale: c’era già stata infatti nel 1978. Ma come vogliono le regole del conformismo culturale, tanto la sordina quanto il risveglio assumono proporzioni insolite.

Prima del 2013 chi faceva ricami intellettuali su questa artista? Oggi è spesso sulla bocca degli addetti ai lavori. A confermare la scarsa attenzione che le è stata riservata in passato, il catalogo della mostra non offre una sezione bibliografica, doverosa per una retrospettiva come questa. E come sempre, scoperto il tesoro, comincia la corsa ad accendere riflettori sul misconosciuto, sul negletto di turno, che in verità al proprio ruolo primario si è largamente disinteressato per dedicarsi al suo “progetto” di vita. Perché di questo si tratta: arte per i vivi e non per i morti, come disse l’artista al sindaco di Ulassai che nel 1980 le propose un monumento ai Caduti. Ecco il suo lapidario convincimento: «Per fare storia mica bisogna fare ciò che hanno fatto tutti gli altri, bisogna fare qualcosa di nuovo, qualcosa che non sia mai stato fatto nel mondo».

L’arte non imita il già fatto. Questo sfata anche l’eventuale ingenua convinzione che Maria Lai abbia disdegnato la questione della forma nella sua opera. Negli anni Ottanta dichiarò che nel 1945, al culmine di una crisi interiore certamente legata alla distruzione della guerra, «non avevo più fiducia nella necessità dell’arte. Non sapevo che fare della mia vita». Era reduce dagli studi all’Accademia a Venzia, dove aveva seguito l’insegnamento di Arturo Martini e Alberto Viani. Ma le radici nell’isola e la sua condizione di donna la faceva sentire “straniera” nel Continente. Torna dunque in Sardegna e alterna soggiorni a Roma dove insegna anche nelle scuole. Ancora crisi, che la tiene lontana dalle esposizioni fino al 1970, ma intanto produce i Telai che sono una sua cifra poetica e stilistica (si sente il rapporto con le scomposizioni cubiste e astratte, coi teatrini e la scultura delle avanguardie, reinventate attraverso il filo e l’ordito della tessitura: un vertice è l’Oggetto paesaggio del 1967; ma che sapiente costruzione formale – ritmi e rapporti precisi –, in certe sculture da parete fatte con legno spago e colori a tempera negli anni Sessanta).

Inizia così un nuovo decennio dove lavora alle tele cucite, poi ai lenzuoli, alle fiabe-libro; ma quando espone i Pani (sculture popolari nel senso in cui Martini diceva che il padre fornaio lo aveva svezzato all’arte plastica lavorando sulle forme con cui produceva i dolci-scultura per le fiere di paese) che poesia povera, viva, fatta di niente vedere gli animali, il presepe, le forme vegetali che si potrebbero mangiare, oppure come pulcini da tenere nel cavo della mano. Sì, Elena Pontiggia dice di non sottovalutare ma nemmeno sopravvalutare il peso che Martini ebbe su di lei. Però questo afflato popolare, di arte che parla tolstojanamente la lingua dell’uomo comune, che lo trascina dentro, «ci prende per mano », ci mette in relazione, ci rende partecipi, una sorta di «globe theatre» all’aperto dove non c’è più lo spettatore ma soltanto una comunità in azione e avvicinamento all’opera.

Ho iniziato dicendo che qualcosa mi portava a scavare nella memoria, e finalmente ho ricordato quello che cercavo: le fiabe che Maria Lai tesseva su pagine di stoffa cucendo libri allusivi, che sono spazi, luoghi, territori di più ampie Geografie hanno forse un legame insospettato con l’opera di un altro grande artista sardo oggi ancora troppo poco conosciuto fuori dalla cerchia di agguerriti collezionisti, Salvatore Fancello, morto precocemente a venticinque anni nel 1941 e coetaneo di Maria Lai, che ci ha lasciato decine di straordinarie ceramiche e un numero elevato di disegni che sono vere mappe del territorio d’origine, della sua flora e della sua fauna, dell’uomo e dei suoi miti. E fra questi il Disegno ininterrotto, un rotolo di sei metri conservato dal Municipio di Dorgali, che donò a Costantino Nivola per il suo matrimonio e che resta una traccia fondamentale del krobylos sociale e politico a cui solo l’arte sa dare ordine e bellezza. Un groviglio che torna anche nelle geografie di Maria Lai.

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