venerdì 13 settembre 2019
Una importante rassegna, imperniata su Orazio Gentileschi, indaga gli effetti del caravaggismo su questo territorio. Spiccano i nomi di Guerrieri, Cantarini, Serodine
Orazio Gentileschi, «Visione di santa Francesca Romana» (particolare, 1619-'20)

Orazio Gentileschi, «Visione di santa Francesca Romana» (particolare, 1619-'20)

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La mostra che Fabriano intona su Orazio Gentileschi e il caravaggismo nelle Marche alla Pinacoteca Civica (fino all'8 dicembre) è, appunto, una polifonia; intonata una nota, subito un’altra la affianca e vuole il suo spazio, e così questa mostra che era idealmente dedicata a uno solo si apre come un ventaglio le cui stecche disegnano un paesaggio che, come scrive in catalogo Anna Maria Ambrosini Massari – responsabile dell’esposizione assieme ad Alessandro Delpriori –, è «un panorama in continuo divenire». La studiosa ricorda a tal proposito che due anni fa a Macerata aveva ordinato la rassegna Capriccio e Natura. Arte nelle Marche del secondo Cinquecento «di cui per certi versi questa nuova occasione espositiva rappresenta una continuazione ». Ed è vero, tant’è che, come scrive la curatrice, questa rassegna dedicata a Gentileschi ne contiene una seconda.

Come una matrioska le stanze dove si indaga la presenza di Orazio nelle Marche tra il 1607 e il 1619 (e a partire dal 1613 il soggiorno a Fabriano), offrono infatti il confronto col marchigiano Giovan Francesco Guerrieri da Fossombrone che pagò e forse continua a pagare – come nota Gianni Papi nel saggio d’apertura – una diminuzione sia come caravaggesco di provincia sia come seguace dello stesso Gentileschi. Sarò forse condizionato dal suo cognome ma Orazio mi fa sempre l’effetto di un pittore assai dotato tecnicamente, elegante nelle scelte formali, caravaggesco un po’ svogliato che, in omaggio appunto al proprio cognome, appare “gentile” nei modi e nello stile. Non ha l’efferatezza di un barocco dei bassifondi, insomma. Longhi aveva dedicato uno dei suoi grandi saggi ai Gentileschi “padre e figlia” e se dobbiamo stare a ciò che conosciamo di entrambi è proprio in questa gentilezza di stile che corre il crinale su cui le loro mani si separano e sono riconoscibili. Artemisia è sempre un po’ sopra le righe, i colori sono forti, eclatanti per dirla con un francesismo, ovvero scoppiettano o scintillano dalla loro stessa corposità di tono, mentre Orazio li accosta con una raffinatezza cromatica che nella figlia non troveremo mai. Uno è leggero, l’altra è grave; lui accarezza, lei morde. Sembrerebbe che i ruoli siano invertiti, lei è maschio e lui è femmina, ma in realtà questo “carattere” ha le sue ragioni nella vita che, anche quando non vuoi, spesso ti forma in un certo modo. E Artemisia deve certamente molto della sua sensibilità aggressiva e del suo rancore perenne alle note vicende che la resero vittima di un abuso da parte di uno degli artisti che frequentavano lo studio del padre. In occasione della mostra romana di qualche anno fa, ho rinnovato la mia convinzione che Susanna e i vecchi che testimonierebbe di quella violenza possa anche non essere opera di Artemisia ma del padre che durante il processo svoltosi a Roma abbia voluto smentire voci che correvano, ovvero che sua figlia fosse un po’ disinvolta con gli uomini (mentre il quadro afferma chiaramente che la protagonista rifiuta le profferte dei due vecchioni, uno dei quali tanto anziano appunto non è).

Comunque sia, per tornare alla mostra di Fabriano, siamo in presenza di un tentativo di allestire un “palinsesto” dell’arte marchigiana nella prima metà del Seicento, sotto l’influenza non marginale di Orazio che lasciò in loco opere notevolissime come la grande pala della Circoncisione del 1607 ad Ancona (che ebbe certamente un influsso su quella del Guerrieri a Sassoferrato dieci anni dopo); a Fabriano la Vergine del Rosario – quadro molto costruito e poco sentito nell’insieme –; il San Carlo Borromeo dove la sua mano si sente, come scrive Papi, soprattutto nell’angelo e nel panno verde sul pavimento, cosa che si verifica anche nell’altra pala carlina con l’angelo portacroce; la Crocifissione, parzialmente scrostata nel colore della metà inferiore; la Visione di santa Francesca Romana eseguita sul finire del soggiorno fabrianese e notevole in quella mistica della luce che rende appieno la delicatezza dello stile oraziano; il David della Galleria Nazionale di Urbino, dove la posizione della testa sovrastante quella di Golia ha una inclinazione quasi identica e lo stesso sguardo a occhi chiusi sembra riflettere nell’eroe biblico un pensiero della morte empatico rispetto a quello del gigante che ha ucciso.

La presunta soggezione del Guerrieri a Orazio è contestata da Papi, e giustamente. Guerrieri è un pittore notevolissimo, che ha fatto esperienze a Roma e conosce bene quello che domina la scena dell’arte: l’Ercole e Onfale risente già del clima da “bassofindi del barocco”, ma con un senso dell’articolazione prospettica che ha una chiara derivazione dall’antico e con un gusto per il dettaglio tipico della natura morta che si sta diffondendo; e la Santa Caterina da Siena che quasi tende a un monocromo terragno in solido contrappunto col chiaroscuro, testimoniano proprio questa conoscenza di ciò che accade nei centri principali dell’arte.

Per tagliare la testa al toro, basta ricordare con Anna Maria Ambrosini Massari che il confronto fra la fabrianese Maddalena penitente di Orazio e quelle del Guerrieri a Fano pende nettamente a favore di quest’ultimo. In una sezione che ne riunisce alcune, fra cui quella del Cagnacci a Urbania, il degno pendant coi primi due viene da Simone Cantarini, altra punta di diamante del Seicento marchigiano, la cui Maddalena ha un rapporto col paesaggio che ricorda la Santa Caterina da Siena del Guerrieri.

Se consideriamo transiti e influenze dirette e indirette, dovremo prendere atto che questo territorio porta le tracce di Barocci, Zuccari, Lillio, Pomarancio, ma anche di Guido Reni, Caravaggio e Rubens, del Guercino giovane, di Lanfranco, Domenichino, Tiarini, Ludovico Carracci, Gramatica, Baglione, Valentin (qui esposto con un San Giovanni Battista che sfida per efficacia pittorica quelli del Merisi), Serodine – a cui Papi ribadisce la sua precoce attribuzione del San Francesco di Paola e il miracolo della fornace: a chi sennò? – culminando idealmente in Mattia Preti. E in questa indagine che è vero e proprio dissodamento di un terreno quasi inesplorato spuntano nomi sconosciuti come Bartolomeo Mendossi (già Maestro dell’Incredulità di san Tommaso). Più che un omaggio a Gentileschi cinque secoli dopo il suo soggiorno a Fabriano, questa è una ricognizione che apparecchia la tavola per tutte le future incursioni storiche nella pittura marchigiana seicentesca.

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