venerdì 14 settembre 2018
Viaggio alla Boca dove si vive nel ricordo e nel rimpianto di “El Diego”, il re del Fútbol. Quella maglia pesa indossarla e neppure Messi è riuscito a emulare il mito
Diego Armando Maradona con la mitica maglia n. 10

Diego Armando Maradona con la mitica maglia n. 10

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«Uno come “El Diego”? Non si è più visto... e forse non si vedrà mia più». Parola di Alfonso Ragi («non Raggi... una “g” se la sono rubata all’anagrafe a mio nonno quando è sbarcato a Buenos Aires), avventore fisso alla bodeguita del Caminito, «dal barista triste e solitario». Sigaro acceso e sguardo sempre fisso, rivolto alla sua «cattedrale», lo stadio della Bombonera: il tempio della sua squadra del cuore. Il Boca Juniors, il secondo club di Diego Armando Maradona (nato e cresciuto nell’Argentinos Juniors) ma prima pelle del “Pibe de Oro”.

Il barrio della Boca è il santuario laico in cui viene venerato il mito vivente de “El Diego”. Il simulacro di Baires, tra Evita Perón, Gardel, il Che e lui, Maradona - che tra litri di birra e un treno di tazze di mate che seguono il binario morto della ferrovia che arriva sotto le gradinate vertiginose della Bombonera - rivive quotidianamente, nei discorsi, nei ricordi dei tifosi sfegatati e nel rimpianto grande come l’Oceano, come quello di Alfonso. Ogni argentino innamorato del «Fútbol» vive questo tempo di grandi paure e di abissali incertezze finanziarie con un altro incubo ricorrente, quello di non rivedere in campo un altro Maradona. Così Alfonso diventa Estragone e io il Vladimiro di Beckett, seduti ad aspettare il Godot argentino che è quel numero “10” scomparso dall’orizzonte porteño. «Guarda qui, lo scrive anche il Clarín di oggi», mi fa notare Alfonso passandomi la copia. “Las historias y los herederos de esa camiseta con un nùmero especial”, titola il quotidiano che passa in rassegna il passaggio a vuoto di quella gloriosa maglia numero “10” dell’Albiceleste. Una casacca troppo ingombrante sulle spalle sempre più piccole di fantasisti, anche dignitosi, come Ortega, Riquelme, Gallardo, Aimar, Alonso. E il “Cholo” Simeone, uomo di «garra» (di battaglia) in mezzo al campo più che un “10”, eppure ebbe l’onere e l’onore di portarlo sulla schiena. E mentre Paulo Dybala piange lacrime da “10” rinnegato, si è appena spenta anche la cometa luminosa di Lionel Messi. La “Pulga” (la Pulce) nonostante la bacheca imperiosa che può vantare al Barcellona e le carezze del Pibe che lo aveva nominato suo erede naturale, rimarrà alla storia del calcio argentino come «el rey sin corona».

Il monarca assoluto è sempre lui, Maradona. E l’Argentina è passata dall’illusione di Messi alla spasmodica attesa del «messia»: il ritorno de “El Diego”. Per gli argentini il mondo si è fermato l’estate 1994, ai Mondiali americani viene incastrato dall’antidoping e così chiuse la sua epopea dopo 91 presenze, 34 gol segnati e un Mondiale vinto, quasi da solo, a Messico ’86. Il Mundial de La mano de Dios. Il mitico gol di mano segnato all’Inghilterra da Maradona. «Oggi il Var lo annullerebbe in un secondo», sorride Alfonso che, come tutti gli argentini, considera quella rete maligna «la vera vendetta per i giovani argentini morti, per mano inglese, sul campo di battaglia nella sporca guerra della Malvinas». Una guerra che i millennials di Buenos Aires prima che sui libri di storia apprendono dai murales della capitale. I muri di Baires parlano, squarciano il silenzio e danno ancora voce alle madri di Plaza de Mayo e ai volti dei loro figli mai più tornati, come i 650 militari argentini caduti alle Isole Malvinas. Vicino alle scene di quell’assurdo conflitto, che terminò proprio mentre Maradona faceva il suo debutto al Mundial di Spagna (giugno 1982), spesso campeggia anche la sua effigie con il pugno chiuso che colpisce il pallone che punì per sempre l’Inghilterra. «D10S Existe» è la scritta ricorrente che rimanda all’«Eupalla» breriano, della cui “apparizione” il primo a renderne conto da noi fu lo scriba massimo del «Fútbol», Osvaldo Soriano.

In una lettera datata 7 maggio 1979 al suo “fratello italiano” Giovanni Arpino, Soriano scriveva premonitore: «Secondo i giornalisti e i miei amici stessi, Maradona è il più grande giocatore (anche se è basso di statura) degli ultimi 30 anni. Fa due gol a partita (la sua è una squadra misera ma sono primi) e fa già parte della selezione nazionale. Certo, tutti i grandi, e il Barcellona, lo vogliono comprare: costa, credo cinque milioni di dollari. Se il Torino ha quei soldi è salvo. Dicono che paragonato a lui Sivori è un energumeno. Poi non dite che non vi avevo avvertito». Rileggo a mente quella lettera ad Alfonso che mi accompagna al cimitero della Chacarita dove sulla tomba di Soriano portiamo una “rosa bianca” come quella della poesia del rivoluzionario Josè Martì. «Un cubano “muy lindo” che piace tanto anche a “El Diego”», dice il “professor Persio”, come lo chiamano alla Boca. Un intellettuale scampato alla dittatura di Videla che del calcio conosce solo gli scritti di Claudio M. Tamburrini («fondamentale il suo La mano de Dios Ediciones Continente »), ex portiere dell’Almagro, evaso ventenne dal centro di tortura della Mansiòn Seré e poi esule in Svezia dove tuttora vive e insegna filosofia all’Università di Goteborg. «Maradona è l’esempio dell’eroe sportivo. Ma il nazionalismo sportivo (calcistico) genera violenza», scrive Tamburrini.

Maradona è l’emblema delle infinite contraddizioni dell’Argentina e del suo popolo: tutto genio e sregolatezza. Un uomo che vive e lotta sempre dalla parte degli ultimi ma che poi non resiste al richiamo del potere degli emiri e al denaro dei loschi padroni del narcotraffico che gli hanno appena affidato la panchina dei Dorados di Sinaloa (serie B messicana). Esistono tanti, troppi volti de “El Diego”, ma il Maradona più umano e più vero è sicuramente quello visto nel settennale al Napoli (1984-1991). «L’unica volta che Maradona ha davvero rigiocato una delle partite di Villa Fiorita (il barrio dove è nato nel 1960) è stata ad Acerra, dove Pietro Puzone, suo compagno di squadra nel Napoli, lo trascinò - contro il pare del presidente Corrado Ferlaino per aiutare un bambino malato», scrive Marco Ciriello nel suo intimistico Maradona è amico mio( 66THA2ND. Pagine 184. Euro 16,00). Chi c’era quel giorno allo stadio di Acerra dove, prima di Eupalla Maradona era passato anche il Grande Torino, ricorda un Diego sorridente e felice di dribblare anche le pozzanghere e di sporcarsi nel fango ricadendo dopo una delle sue acrobatiche rovesciate. Quel pomeriggio dell’85 «Diego per due ore smette il sogno, smette il lusso e torna il ragazzino che era prima che cominciasse tutto», scrive sempre Ciriello. Lascio la Boca, mentre chiediamo al barista triste e solitario di alzare la radio. «Pelè è il re, Diego è dio», canta il refrain Alfonso: «Sono i Ratones Paranoicos (i “Topi Paranoici”)... - sorride e mi abbraccia - . Me gustano, come il calcio, come Maradona, come la vita, che è bellissima e tanto “loca”».

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