domenica 9 gennaio 2011
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La notte del 17 gennaio 1991, mentre i lampi di una nuova guerra squarciavano il cielo dell’Iraq, se ne andava uno dei più grandi cantori della pace e della pietà del Novecento: Giacomo Manzù. Rammentiamo la Messa funebre in San Giovanni in Laterano, dove si accennò, con discrezione, all’incontro finale dello scultore con Dio (era stato monsignor Donato De Bonis a prendere, tra le sue, le mani di Manzù, lui, confiderà monsignor Loris Capovilla, a sentir «scorrere nuovamente le acque battesimali sul capo dell’artista»). E ricordiamo il commiato al cimitero del Verano, dove si faticò parecchio a far entrare la cassa nel loculo provvisorio e udimmo la frase «era troppo attaccato alla vita». Sedici mesi dopo, il 22 maggio 1992, le spoglie di Manzù venivano traslate alla Raccolta di Ardea (terra d’adozione e d’elezione) per essere tumulate nel monumento dedicato alla sua memoria: gesto che consentiva a Giacomo, come aveva chiesto alla moglie Inge, di tornare a casa, tra le sue opere. Ora, retorica degli anniversari a parte, anche il ventennale della morte di questo autore straordinario può costituire l’occasione per nuovi approfondimenti. E a uno qui vogliamo accennare. La ripresa di quel filo rosso del "Sacro" che attraversa la produzione dello scultore e parte da molto lontano, e, insieme, la riscoperta di alcuni suoi incontri con uomini di Chiesa che influirono sulla sua vita e i suoi lavori, come padre Agostino Gemelli, come don Giuseppe De Luca. No, non si tratta di attribuire patenti o etichette a un artista che molti continuano a definire "ateo" (ma che a chi scrive ripeteva: «Dio, la fede, sono cose talmente più grandi di un uomo»), "comunista" (ma che argomentava che «essere di sinistra per me è una scelta più umana che politica», legando le sue idee alla sua ribellione contro la povertà, le ingiustizie, alla resistenza…). Né di enfatizzare la sua presenza adolescenziale, accanto al padre, custode del Monastero di San Benedetto e sagrestano in Sant’Alessandro, a Bergamo, fra argentee canne d’organo e ondeggianti turiboli. E nemmeno, di caricare, di lì a poco, la sua prima importante apparizione, nel cantiere ambrosiano, dove il «ragazzo, credente per formazione familiare e per intimo convincimento, portato per sincera inclinazione a dar vita a sacre figurazioni» (così Lamberto Vitali nel ’33) era stato chiamato da padre Gemelli a lavorare per la cappella dell’Università Cattolica, ben dimostrando di saper alimentare «il tempo della quotidianità con un ieri che ritorna ogni volta e senza sosta, perché ha in sé la vera radice dell’eternità», una conferma del fatto che alla volontà di attuare l’endiadi antico e moderno «sono affidate quasi tutte le possibilità di preparare confidenti il futuro» (così Lorenzo Ornaghi aprendo il saggio edito nel 2004 da Vita e Pensiero su quella lontana collaborazione). Non a caso anche l’ultima importante esposizione, Giacomo Manzù 1938-1965. Gli anni della ricerca, curata da Maria Cristina Rodeschini e Marcella Cattaneo alla Galleria d’arte moderna e contemporanea di Bergamo nel 2008, ha finito per riabbracciare un percorso in parte esplorato da Maurizio Calvesi nella mostra itinerante Manzù e il sacro del 1991 o da Claudio Strinati e Livia Velani in quella del 2002 a Palazzo Venezia Manzù l’uomo e l’artista. Percorso che, avviato con la serie delle crocifissioni realizzata tra il 1939 e il 1942, proseguito attraverso l’innovativa scelta iconografica dei cardinali, e forte di rapporti singolari (ad esempio con don Giuseppe De Luca e con Giovanni XXIII, ma dovremmo aggiungere pure Giuseppe Sandri, Loris Capovilla, Gustavo Testa…) arriva alla realizzazione della Porta della Morte per San Pietro. Non a caso, ancora, sul nuovo volume dell’Archivio italiano per la storia della pietà, Mariano Apa, riflettendo sul connubio arte e modernità in Manzù, insiste sugli effetti del legame indissolubile fra lo scultore e l’erudito prete romano De Luca, capace di ridefinire una concezione della modernità che nel contesto dei linguaggi dell’arte giunge a esprimere anche la possibilità di un rinnovamento ecclesiologico in sintonia con paradigmatici mutamenti storici. Del resto, è difficile non percepire in Manzù - fra i primi a intuirlo Cesare Brandi e Giulio Carlo Argan - la sintonia di quell’idioma figurativo al contempo antico e moderno, in grado di conferire "per immagini" l’attualità della bimillenaria proposta del messaggio cristiano, da sempre, cifra dello scultore. Mentre è chiaro che, al di là delle soluzioni formali destinate a mutare, da sempre c’è stato, in molte opere di Manzù, un rimando, quasi di specchi, fra il suo mondo interiore e il mondo della Chiesa (e viceversa), tutto giocato dentro il rapporto fra tradizione e modernità, tema cruciale nel corso dei secoli per la Chiesa cattolica. Così come è evidente che l’artista, affiancando presto nella sua poetica motivi cristiani e ancorati all’ethos umano, saldati già negli anni Quaranta, come reazione alla violenza bellica al suo esplodere, anche attraverso un’iconografia di dolore, ponendo insomma la figura di Cristo come emblema di innumerevoli innocenti uccisi fra bagasce e nudi sacripanti con l’elmo a chiodo, era già entrato nel cuore del problema. E, scioltisi equivoci e malintesi che avevano fatto gridare allo scandalo, anche don De Luca capì. Da quel momento sarebbe stato per Manzù un fratello e una guida. E in difesa dello scultore, il prete romano avrebbe scritto testi insuperati.Come questo frammento del ’42: «Perché vedere incaponirsi a fare, per così dire in casa, anzi in sagrestia, un pensiero cattolico, un’arte cattolica, un’azione cattolica, e non entrare nel pensiero nell’azione degli uomini? E ciò che è umano, non è perciò stesso cristiano, perché chiamato a esserlo dall’unico autore che noi confessiamo dell’umanità e del cristianesimo [...] Dobbiam ridurre la morale di Cristo eterno e della Chiesa due volte millenaria a una tariffa daziaria, o non è invece il segreto fuoco di ogni nostra luce? La morale cattolica è soltanto freno, non è stimolo, anzi vita?[.. ] Inoltre si dice: ma ogni soggetto religioso dev’essere per la venerazione e il culto. No cari signori. Il cristianesimo è per l’uomo, non per la liturgia. La liturgia è per il cristianesimo…». Il resto è ben noto. A cominciare da quel primo significativo incontro, complice sempre De Luca, nel ’56, a Venezia, durante la XXVIII Biennale, con il patriarca di Venezia Roncalli, che dal ’58 Manzù cominciò a ritrarre nel bronzo, dopo che l’illustre conterraneo era salito sulla cattedra di Pietro. E sarebbe stato Giovanni XXIII a convincerlo a riprendere il lavoro alla Porta per la basilica vaticana sul Trionfo dei Santi e dei Martiri, del quale l’artista non era più convinto. Ci raccontò Manzù ad Ardea in un colloquio del 1987: «Un giorno, dopo i primi incontri, il Papa portò il discorso sulla Porta di San Pietro: "Faccia la Porta, subito!". Replicai che con la commissione non potevo lavorare in libertà. E lui: "La commissione è composta da qualche cardinale, lei la faccia subito e la commissione non la disturberà". Gli dissi: "Potrei farla sulla morte?". Rispose: "La faccia sulla morte". Cominciai il giorno seguente, dopo quattordici mesi era finita».
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