sabato 14 febbraio 2015
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Vergate tra il 1920 e il 1955, indirizzate ad amici ed estimatori italiani, le lettere di Thomas Mann fatte conoscere dalla fedele traduttrice Lavinia Mazzucchetti dopo la scomparsa dello scrittore (12 agosto ’55), tornano ora in libreria con il titolo La gioia maiuscola di essere scrittori (Il Saggiatore, pp. 142, euro 15). Un titolo non casuale, considerando che larga parte di questi testi costituiscono una testimonianza del legame di Mann, romanziere, critico e drammaturgo, con la scrittura e la sua lingua madre, oltre che un viaggio sul doppio binario 'vita e letteratura' nel contesto storico del tempo Se l’intento dichiarato alla loro prima pubblicazione era soprattutto quello di chiarire l’atteggiamento del Premio Nobel nei confronti del nostro Paese («terra antica ma non esausta») e delle sue vicende culturali e politiche, nella speranza di cancellare i pregiudizi che lettori meno attenti mantenevano nei suoi confronti (da ricordare almeno il rovesciamento di posizione dal sostegno alla guerra nel 1914 alle ritrattazioni dopo il 1921 espresse in frasi come «in guerra è la rozzezza a trionfare»), la rilettura dell’epistolario oggi porta a cogliere soprattutto nel Mann accusato di 'eccessi pacifisti' e 'tradimento spirituale', più di una non celata preoccupazione. Per esempio quella per un esilio che «protratto per anni o per tutta la vita», avrebbe potuto chiuderlo in un amaro isolamento linguistico: cosa che non avvenne affatto, anche solo pensando alle numerose opere nate nei quattordici anni negli Stati Uniti (gli ultimi due volumi della tetralogia Giuseppe e i suoi fratelli, Carlotta a Weimar, il Doctor Faustus, L’eletto, le Confessioni del cavaliere d’industria Felix Krull, Le teste scambiate, L’inganno, oltre a saggi e interventi vari). Per esempio quella dentro l’idea di 'catastrofe' che persistette in lui, persino a guerra finita, innanzi al delinearsi dei due blocchi contrapposti, insomma alle nuove tensioni della Guerra fredda che lo videro formulare questa tesi in una lettera del 28 giugno ’53 a Giulio Einaudi: «Nella lotta per il potere tra America e Russia io sono, comunque per la neutralità europea, senza nascondermi, tuttavia, che neutralità è già di nuovo una forma di liberalismo». Tornando agli spunti offerti da queste missive – dove fra i destinatari, spiccano insieme a Einaudi appena citato e alla già ricordata Mazzucchetti gli editori Arnoldo e Alberto Mondadori, il filosofo Enzo Paci, il critico letterario Emilio Cecchi, l’accademico dei Lincei Ranuccio Bianchi Bandinelli – quelli più interessanti si palesano dopo l’assegnazione del Premio dell’Accademia dei Lincei nel ’52, e il viaggio di Mann a Roma l’anno successivo. Con un desideratissimo incontro con papa Pacelli del quale diamo conto a parte in questa pagina. E con alcuni giudizi su scrittori italiani marcatamente orientati sotto il profilo politico. Il 28 giugno ’53 , pur affermando di rifiutarsi di prendere parte «all’ottusa campagna anticomunista “à l’américaine”…», confida a Einaudi lo scrittore: «...Ma io mi chiedo, ad esempio, come Pavese, col suo interesse per ’i temi più delicati e complessi della filosofia contemporanea’ e la sua tendenza al mito, si raffigurasse la sua vita personale in un’Italia sotto disciplina comunista, nella camicia di forza della dogmatica comunista. Credeva, forse, che certe sue sublimi passioni secondarie, tra cui il suo debole per le mie storie di Giuseppe, sotto il dominio comunista gli verrebbero permesse? Sarebbe stata un’ingenuità…». Si chiudono queste pagine e, pur sapendo che sono all’incirca quindicimila le lettere di Thomas Mann (così ricordava il compianto Italo Alighiero Chiusano), si ha una sensazione. Quella di aver letto quanto basta per ricalibrare opinioni su un grande maestro non senza fama di egocentrismo (al suo arrivo negli Stati Uniti nel ’38 sentenziò: «Là dove sono io, lì c’è la Germania») e di asocialità (lui stesso confessava d’essere «incomodo e non piacevole »). Un uomo che si genuflette davanti a Pio XII, amabile con la sua traduttrice e i suoi amici, dai giudizi poco perentori. E, prima ancora, uno scrittore «di un solo linguaggio» mai compromesso: neppure dal «profondo orrore per la Germania» dal quale – temeva – non si sarebbe mai del tutto liberato.
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