sabato 11 giugno 2016
Mangio ergo condivido
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Si chiamano «feste del ritorno» quei momenti “miracolosi” in cui antichi borghi, soprattutto in aree collinari e montane, dal nord al sud d’Italia - dal Piemonte alla Sicilia, dal Trentino alla Basilicata ricuciono le dolorose ferite inferte dallo spopolamento e dall’abbandono e inaugurano, con delle feste appunto, un nuovo inizio grazie a forze giovani che creano economie capaci di ripartire. Riflette sul valore sacrale del cibo, ingrediente essenziale di ogni festa, l’antropologo e scrittore Vito Teti, alla vigilia di un tour serrato che lo vedrà presentare il suo ultimo libro Fine Pasto. Il cibo che verrà (Einaudi, pagine 155, euro 11,00) proprio nella sua Calabria, che è terra ricca di tanti eventi alimentari, religiosi e sacrali, e che culminerà nell’incontro con alcune delle più antiche comunità italiane, con le minoranze linguistiche “albanofone” e “gracaniche”. Possiamo definire, professor Teti, il sostentamento un’esperienza culturale, oltre che fisiologica? Il sostentamento è una necessità biologica e fisiologica. Non potremmo vivere senza nutrirci di cibo e acqua. Il “mangiare” è il cibo che si mangia abitualmente, il cibo che manca, quello che si desidera e si sogna; è il cibo delle feste o quello da evitare e che fa male. Nello stesso tempo mangiare, come verbo, indica l’atto, i gesti e i riti legati al consumo di cibo, il suo carattere sociale, culturale, simbolico. Il sostentamento collega - e non separa - natura e cultura, il bisogno biologico del nutrimento e gli aspetti culturali, cerimoniali, sociali del cibo». In Fine Pasto lei sottolinea come nel Mezzogiorno d’Italia gli orti siano ritenuti «luoghi di coltura e di cultura, di prodotti e di saperi ». Perché non possiamo permetterci di slegare il cibo da quei valori immateriali che lo innervano? «Penso che in tutte le culture e le società sia essenziale sapere cosa si mangia, da dove proviene il cibo, come e con chi consumarlo, come condividere. Un mondo che dimentica il legame tra natura, terra, produzione, cultura e costruzioni simboliche è destinato alla lunga all’estinzione. La socialità e la convivialità alimentari sono fondamentali quanto il cibo stesso, perché come l’uomo non può parlare da solo così non potrebbe mangiare da solo». A tal proposito l’etnologo Ernesto de Martino annota come il pane inteso come “cibo che nutre” «si può perdere anche quando si spegne la sua valorizzazione di cibo da mangiarsi in comune». Perché la dimensione conviviale è un elemento essenziale e non accessorio? «Si è rimasti legati talora alla concezione che l’uomo è ciò che mangia, ma appartiene anche alla tradizione occidentale l’invito a trovarsi prima il commensale e poi il pasto. Dovremmo dire: “dimmi come mangi”, ma anche: “dimmi con chi mangi”. Il termine compagno deriva da companio cioè “che mangia lo stesso pane”. E il pane in tutte le società ha valenze simboliche caratterizzanti tutte le feste e i riti di passaggio. Il pasto rituale stabiliva e rinsaldava legami familiari e di gruppo, metteva in contatto vivi e defunti, propiziava future abbondanze». Come si può recuperare una sacralità del cibo se esso non è più necessario, visto che oltre un terzo di quello prodotto viene sprecato, mentre una parte consistente del mondo soffre ancora la fame? «Decisive sono le scelte economiche e politiche di chi decide il destino del mondo. Come i piccoli gesti quotidiani e le scelte individuali che possono generare una nuova sacralità del cibo e della vita capace di influenzare chi decide a livello globale e locale. Dobbiamo capire che le profonde ingiustizie sociali e un’iniqua distribuzione delle risorse portano alla fine del pianeta. Sprecare di meno diventa pertanto non solo un fatto etico, ma anche una scelta saggia e conveniente. Papa Francesco lo segnala e lo dice in molti modi, con potenza e poesia». Mai come oggi, però, si parla tanto di “mangiare” «Più che del “mangiare” oggi si parla di cibo. I poveri perché hanno fame. I ricchi perché ne hanno troppo: sono ossessionati da nuove fobie alimentari e creano nuove mitologie». Una di queste - quella della dieta - idealizza spesso un mondo antico che lottava per la fame e la sopravvivenza, non per la linea. Dove si nasconde il bluff di tanta retorica mediatica legata al cibo? «Nel presentare il passato come un’età dell’oro o all’opposto come un inferno. La retorica mediatica ha bisogno di costruire genuinità, purezze, sobrietà che in passato erano obbligate e che oggi non vengono più praticate. Se però è un bene aver abbandonato il mondo della fame, si è rivelato nocivo il passaggio agli eccessi e agli sprechi. I bluff mediatici celano interessi poco nobili, ma spesso utilizzano il bisogno di una nuova etica che si deve inventare senza dimenticare modelli e stili che il passato ci consegna». Tuttavia chiude il suo libro con un’immagine molto bella di genitori che nutrono giorno dopo giorno i figli, come di figli adulti che accudiscono genitori anziani. Lei parla a proposito di “miracolo” e dunque sembra intravedere un futuro di speranza percorribile. È così? «Certo. Nei miei libri c’è sempre una componente autobiografica, spesse volte mascherata e non esibita e questa ha un senso quando può concorrere a scrivere “biografia” di un mondo più vasto. Mi espongo. Da anni mia sorella ed io aiutiamo a nutrirsi la mia anziana mamma che è impedita dalla sua malattia. Prima lo abbiamo fatto con mio padre. Sono pratiche inattuali, spesso impossibili per la fretta e gli impegni della nostra vita, e costano anche fatiche e rinunce, ma sono quelle pratiche che riempiono la vita e creano una gioia immensa. Restituiamo in parte ai genitori quello che per anni hanno fatto con noi bambini e anche adulti. Non siamo né eroi né costituiamo un’eccezione. Tante persone si prendono cura dei genitori, degli ammalati, dei poveri, di chi ha bisogno. Quando in Calabria cominciarono tanti anni fa i primi sbarchi, le persone correvano sulla spiaggia per portare indumenti e cibo ai profughi che arrivavano sulle carrette del mare. Questi “miracoli” sono possibili e ognuno di noi può compierne almeno uno al giorno rinunciando a un po’ del suo cibo come dedicando un po’ di tempo agli altri. Per questo la speranza resta viva e l’utopia di un mondo migliore, fatta di tante piccole utopie quotidiane, mi sembra concreta e possibile».
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