sabato 11 giugno 2016
Manganelli, giudice ironico al talent dei libri
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Non tutti i carteggi editoriali hanno pari valore letterario. Quelli di Calvino, per esempio, rispondono a requisiti di natura teoretica e sembrano scritti per consegnarsi alla posterità. Quelli di Vittorini invece sono meno studiati a tavolino, forse più sofferti e partecipati, di certo idonei a individuare un’idea di letteratura in termini progettuali. Nel caso di Giorgio Manganelli svelano i caratteri latenti di una scrittura, dicono di una poetica che fa tutt’uno con i testi usciti dalla fucina dell’invenzione e non più del metodico e grigio compilatore di schede su opere in lingua inglese.  Non c’è nulla di noioso in questo Estrosità rigorose di un consulente editoriale (a cura di Salvatore Silvano Nigro, Adelphi, pp. 332, euro 15) e chi legge può averne ampia conferma perché a far da padrone non è tanto il Manganelli che allaccia stabili rapporti con Einaudi (ma vi sono anche documenti relativi alla collaborazione con Garzanti, Mondadori e la stessa Adelphi), quanto l’originale estensore di Hilarotragoedia (1964), lo scrittore che ha ben chiaro il carattere menzognero della letteratura e si diverte a esplorare i libri che arrivano sul suo tavolo assecondando quell’«uso sregolato, malizioso e allucinato, 'fiammingo' della fantasia», a cui allude Manganelli stesso in un documento non compreso in questo volume, ma citato da Nigro nella postfazione al libro. «Uso fiammingo della fantasia» è un’espressione che si riferisce certo alla proposta di riscrivere il Morgante di Luigi Pulci, avanzata da Manganelli alla sigla dello Struzzo dopo l’Orlando furioso di Calvino e la Gerusalemme liberata di Alfredo Giuliani, però è nel contempo una formula così fortemente evocativa da aprire uno scenario sui testi compresi in questo volume e indirizzarne le proposte editoriali, i giudizi di merito o di bocciatura verso un’idea di letteratura che assomiglia sempre più ai dipinti di Brueghel ilVecchio o di Bosch. La postfazione di Nigro alza di molto la posta in gioco: informa minuziosamente, conduce per mano dentro il labirinto di giudizi, suggerisce piste di lettura, seduce per le ipotesi che mette in campo e, facendo leva su un capillare lavoro di annotazioni, punta tutto sui modi eccentrici grazie ai quali Manganelli dissemina di intuizioni originali e inconsuete l’impegno di consulente editoriale.  Messo di fronte alla necessità di valutare, Manganelli avrebbe potuto reagire con una dose meno insolita di ironia, magari con una lingua meno elaborata, ma non sarebbe stato l’autore che conosciamo se si fosse limitato a pronunciare un semplice sì o un no. Sicché il divertimento linguistico che incontriamo pagina dopo pagina, l’elaborazione di certi paradigmi, il ricorrere a curiosi divertissementdiventano indizio di una ricerca letteraria che copre un arco di cinquant’anni (lettere e schede di lettura vanno dal 1943 a poche settimane prima della morte), finalizzata sì a veicolare le scelte di un editore, ma anche a dare conto delle proprie traiettorie narrative, a svelare i tanti misteri che costellano una fantasia così ricca e variopinta. Fiamminga, appunto.  Chi leggerà queste pagine si divertirà di fronte alle iperboli o metafore che danno una screziatura funambolica ai documenti: «Themerson funziona bene per qualche chilometro, con agilità da macchina sprint, poi si trasforma in autocarro con rimorchio in salita» (sta parlando del Cardinal Pölätüo di Stefen Themerson, 17 maggio 1966) o «La sua pagina sa di virtuosa varichina, i suoi periodi vanno in giro con le calze ciondoloni» (qui Manganelli si lancia su The Four-Gated City di Doris Lessing, 25 gennaio 1970) o ancora: «Detto che si tratta di un libro di qualità, devo aggiungere che è il tipo di qualità che non mi interessa, e che mi pare un libro che forse un giorno sarà antico, ma per ora è un prezioso lacerto, forse una medusa, un osso di seppia, o una scarpa di donna senza tacco, o magari un preservativo usato a metà» (il soggetto in questione è The Rock Pool di Cyril Connolly, 13 febbraio 1973). Possiamo immaginare le espressioni di chi riceveva «un chiassoso 'sì'», un «parere chiassosamente favorevole», un «cauto non frenetico assenso», un «'sì', non orgiastico ma del tutto consapevole». Possiamo intuire quanto ineffabile dono di sintesi, quanta acutezza di giudizio si nascondano, per esempio, dentro la chiosa con cui Manganelli accompagna la lettura ultimata di Bernard Kops, By the Waters of Whitechapel (1966): «Lettura ferroviaria, da treni accelerati, novembrini»; oppure quando, contraddicendo l’ordine di una qualsiasi logica, afferma a proposito di West of Suez di John Osborne (1971): «È una cosa di rara bruttezza, di una goffa opacità moralistica; lo trovo repellente. Pubblichiamolo». Estrosità rigorose di un consulente editoriale non è solo questo. È anche l’inventario di una ricerca letteraria (esattamente come il titolo della collana che in seno a Einaudi intendeva continuare il lavoro cominciato da Vittorini con i 'Gettoni' e con 'Menabò'), è una biblioteca di fantasmi (quelli occasionali, che si presentavano con idiomi stranieri sullo scrittoio di Manganelli, e quelli destinati a moltiplicarsi dentro le strade della sua immaginazione), è un camuffato manuale di narratologia. Sotto questa luce, quale prontuario inedito di regole mai scritte, non c’è solo il corpo a corpo con la lingua degli altri, ma il gioco della falsità e della verità, lo spirito di una letteratura che, nonostante i numerosi de profundis pronunciati negli anni Sessanta, continuava a vivere autenticamente di allucinazioni fantastiche, di ingegnosità barocche, di tanto inutili quanto geniali scherzi della mente.
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