venerdì 4 aprile 2014
​Trascurato in patria, lo strumento conosce un boom in Corea e Giappone.
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Che fine ha fatto il mando­lino? Lo si sente spesso in­vocato come simbolo di un’Italia da cartolina ma i­nesistente, strapaesana e gaudente, nel peggiore dei casi arruffona. Più diffici­le ascoltarne il timbro argentino e can­tabile che fece innamorare una folla og­gi forse inimmaginabile. Il posto mi­gliore dove scoprirlo è alla liuteria Ca­lace, a Napoli. Dove si fanno mandoli­ni dal 1825. Qui è nato il mandolino mo­derno. E da qui partono strumenti in tutto il mondo. «All’anno arriviamo a produrre 280-300 mandolini – raccon­ta Raffaele Calace, erede della tradizio­ne mandolinistica partenopea – ma al­l’epoca di mio nonno qui c’erano 42 di­pendenti e dalla bottega uscivano tre­mila mandolini all’anno». Perché il mandolino è uno strumento dal passa­to glorioso e un presente difficile: «Se­condo alcuni – racconta Calace – ai pri­mi del ’900 a Napoli e dintorni c’erano oltre cento liutai. Era uno strumento diffuso in tutte le case e in tutti gli stra­ti della popolazione».Il boom del mandolino accompagna quello della canzone napoletana: «Par­te nella seconda metà dell’800 e arriva al suo apice tra le due guerre. Il suo pub­blico iniziale era quello aristocratico e dell’alta borghesia. La stessa regina Margherita di Savoia era un’abile man­dolinista e aveva un’orchestra di stru­menti a plettro. Il successo della can­zone napoletana lo fece diventare po­polare. Troppo, per il ceto elevato. Che se ne disamorò». La batosta arriva con la Seconda guerra mondiale. «Un de­clino fortissimo, dovuto all’arrivo delle mode americane. Il mandolino diven­ne qualcosa da nascondere. Col tempo si è capito che era uno strumento bel­lissimo ed è iniziata la riscoperta. Ma è più un interesse colto che una cultura diffusa. In Italia nei conservatori ci so­no cattedre di mandolino che prepara­no persone ad alto livello. Gli altri re­stano spettatori». C’è un ritorno anche nella musica popolare, che però non sembra dettato da una domanda inter­na: «Sa dove si trova il nucleo mandoli­nistico più grosso? A Sorrento, perché è zona turistica. E negli alberghi chiedo­no concerti di mandolino. Qui abbia­mo abbandonato la mu­sica nostra».Raffale porta il nome di suo nonno, la figura più importante per la diffu­sione del mandolino nel mondo. Raffaele Calace senior era detto il “Pa­ganini del mandolino”. Musicista oltre che liu­taio, portò lo strumento fino in Giappone, dove nel 1924 si esibì davan­ti all’imperatore. A Hi­rohito piacque a tal punto che gli con­ferì la commenda del Sacro tesoro giap­ponese. E nel Sol Levante scoppiò la mandolinomania. Mai tramontata: «Oggi invio in Giappone due terzi della produzione. Senza l’esportazione non potrei sopravvivere. Laggiù il mandoli­no ha trovato terreno fertile perché era uno strumento moderno adatto alla lo­ro musica tradizionale. Oggi i college giapponesi hanno un’orchestra sinfo­nica e una mandolinistica. In Italia in­vece il mandolino è e­scluso dall’insegna­mento nelle medie a indirizzo musicale. È una follia: per lui han­no scritto Vivaldi, Beethoven, Mozart, Pa­ganini. Ed è un’offesa per la cultura musica­le italiana». Il mandoli­no, insomma, non abi­ta più qui: «Due anni fa è stato è fatto il festival del mandolino napole­tano. Ma non a Napoli, a Seul. In Corea l’interesse è esploso dieci anni fa. Ci so­no classi di mandolino numerosissime e concerti tutte le settimane».
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