martedì 15 aprile 2014
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Nella notte fra il 25 e il 26 luglio del 1941 la Regia Marina attaccò Malta, controllata dagli inglesi, per impossessarsi di un’isola strategica nello scacchiere geografico mondiale e bellico di quel momento. Fu un disastro, dovuto anche all’avaria di molti mezzi (Mas, motoscafi, motosiluranti e Slc, siluri a lenta corsa) utilizzati. Si disse che buona parte della responsabilità fosse dovuta all’improvvisazione con cui l’operazione fu gestita. Gli storici accreditarono questa tesi. Ebbene, a distanza di 70 anni, dalla biblioteca comunale di Porto San Giorgio emerge un interessante documento che può contribuire a fare chiarezza su questo aspetto. Si tratta di alcune pagine manoscritte che riscrivono quella dolorosa pagina, smentendo, tra l’altro, quanti hanno sempre sostenuto che non vi furono precedenti progetti e tentativi di attuarli.La scoperta è del professor Giarmando Dimarti, direttore della locale biblioteca "Pieri", che ha da poco acquisito un lascito di documenti, il "Fondo Borsoni-Ciccolungo" appartenente a una conosciuta famiglia sangiorgese. Dimarti ha trovato un manoscritto del 1991, firmato da Rismondo Borsoni, ingegnere, ancora vivente, che in sei pagine racconta le confidenze che gli erano state rese da un altro professionista di Fermo, l’ingegner Lorenzo Monelli. Borsoni, rintracciato, riconosce il manoscritto e il suo contenuto, che riguarda la decisione del governo Mussolini di attaccare Malta già l’anno precedente, tentativo cui si rinunciò proprio per il fallimento delle prove tecniche.«Nel 1940, ci racconta Borsoni, la famiglia Piaggio era proprietaria della Società Cantieri Navali Riuniti di Genova, che gestiva, oltre all’arsenale ligure, anche i cantieri di Monfalcone, Ancona e Palermo. Nel febbraio di quell’anno Rocco Piaggio fu convocato dal Ministero della Marina per la costruzione di mezzi da sbarco (una cinquantina) da consegnare entro poche settimane: si parlava della metà del mese di maggio. Piaggio rispose che era impossibile soddisfare la commessa e fornire nel tempo richiesto quei mezzi, anche perché non ne esisteva neanche il progetto.«All’epoca – continua Borsoni – la Germania non disponeva di mezzi da sbarco ma ne aveva pronti i disegni. Il Ministero italiano chiese così quei documenti, che arrivarono a Roma e furono poi inoltrati ai Cantieri genovesi. Piaggio, tuttavia, non era ancora convinto, perché il tempo a disposizione gli consentiva la consegna degli scafi ma non dei motori e degli assali per le eliche. Era tuttavia un passo avanti, così che il Ministero italiano fece una veloce indagine verificando che era possibile assemblare i vari pezzi. Li avrebbe presi dall’Alfa Romeo, che aveva in costruzione motori ordinati dalle Ferrovie dello Stato da montare sulle "littorine", che avevano caratteristiche analoghe a quelle occorrenti per i mezzi da sbarco, e dalla Fiat, che stava costruendo molti Mas per la Marina e aveva pronti gli assali delle eliche che potevano essere adattati ai mezzi da sbarco».I Cantieri navali di Genova vennero così incaricati di costruire gli scafi, e assemblarli con gli assali della Fiat e i motori dell’Alfa Romeo. I mezzi da sbarco dovevano essere pronti per il 15 maggio 1940. Capo Commessa fu nominato l’ingegner Lorenzo Monelli, di Fermo. «In questo modo – riprende il racconto Borsoni – il Ministero assicurava a Mussolini l’uso dei mezzi per l’ingresso nel conflitto, progettato per il 10 giugno, con la dichiarazione all’Inghilterra e la contemporanea occupazione di Malta. Monelli, tuttavia, esaminate le caratteristiche dei motori e degli assali delle eliche, valutò che le vibrazioni ne avrebbero procurato la rottura. Così avvenne: un prototipo venne provato in un ambiente nascosto vicino al cantiere di Genova, ma in pochi minuti l’assale si ruppe. Esisteva un altro prototipo, l’assale fu rinforzato, ma il risultato fu lo stesso. Allora La Marina annullò la Commessa, ordinò la distruzione di tutti i mezzi anche non ultimati e la restituzione alle rispettive fabbriche dei motori e degli assali».Così si chiude il racconto di Borsoni, al quale chiediamo in quale circostanza Monelli gli rivelò questa storia: «Anni dopo, ci trovammo a lavorare insieme in un frantoio nella zona di Jesi. Ci trovammo in circostanze tecnicamente analoghe. Dovevamo sperimentare la tenuta di un macchinario che avevamo progettato. Si lasciò sfuggire una frase: "Non andrà a finire come a Genova…?". Gli chiesi a cosa si riferisse e, con molta fatica, raccontò questa storia, vincolandomi alla riservatezza, perché queste informazioni erano coperte da segreto di Stato. Non ne riparlammo più. Ma ne presi nota».
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