martedì 6 novembre 2018
L’artista torna dopo 3 anni con un album da autrice. Un po' Mina, un po' Vanoni, ma ammette: «Mi manca il capolavoro che resti nel tempo». In tour con due location in ogni città, in teatro e nei club
Malika Ayane, la musica fa... effetto "Domino"
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Parte stasera dal Politeama di Genova il nuovo tour di Malika Ayane, originale come pochi in quanto doppio: con un allestimento cioè per i teatri (con cinque musicisti) e uno per i club, prima data domani sempre a Genova al Bangarang con solo synth, chitarra e batteria. Il tour proseguirà sino al 2019 inoltrato sempre con doppia location in ogni città o dintorni, da Napoli a Milano alle accoppiate Assisi-Perugia e Padova-Treviso; ed è occasione di proporre live Domino, album con cui la Ayane torna ai dischi dopo tre anni, cd numero cinque di una storia decennale. Domino, di cui Malika è integralmente autrice, ancora una volta ne conferma talento, eleganza, uso della voce e personalità ben superiori alla media: si tratta di un album che ricorda in un sol colpo i tempi d’oro di Mina e Vanoni, fra le sonorità colte e jazzate di Questioni di forma, il piglio antico e moderno di Stracciabudella, l’ariosità sfiziosa e delicata di Non usciamo, con l’unico limite – rimarcato da lei stessa con lodevole sincerità – di mancare di un capolavoro tout-court, che resti nel tempo più ancora che nelle hit. Però è bella musica, fra meditate eco dei Coldplay, eleganza retrò stile Matia Bazar al top, stuzzicante piglio cantautorale, mix technopopjazz dovuto alla collaborazione con gli studi Jazzanova di Berlino, già autori di magnifiche trascrizioni contemporanee del jazz classico della Blue Note. Ma la marcia in più della Ayane, che debuttò studiando violoncello e cantando alla Scala per Chailly e Sinopoli, è la persona: colta ed elegante, genuina e aperta, ironica e profonda, ben oltre le maschere del tristo pop odierno. Dunque con Malika si finisce col parlare non solo di Domino, ma di vita: dell’Italia che osserva dalla prospettiva del sangue misto, madre italiana e padre marocchino; delle paure da madre della tredicenne Mia; di un far musica che non ha paura né di osare nuove strade né di fermarsi un po’, «per non far vincere l’ansia di un inutile presenzialismo: tanto il mondo va avanti anche senza me e poi fare il mio mestiere col gusto di farlo credo sia l’unico modo per farlo bene».

Come si sente, nell’Italia del 2018 e nei suoi conflitti sui temi razzismo, accoglienza, diversità?

«Le dirò che in primo luogo mi piace puntualizzare che l’Italia è di tutti, i suoi problemi non devono essere prerogativa solo di chi ha in casa una storia multiculturale. Da ragazza pensavo fosse questione di tempo, per capire che l’Italia è un miscuglio, bello, di provenienze; a 34 anni penso che siamo tutti affaticati da molte paure e si fatica a fare quel salto. Forse dovremmo soffermarci di più su storie belle come l’Italia di pallavolo; dovremmo uscire di più, parlarci di più, capire che tanti attendono solo di condividere, di conoscerci, di farsi conoscere».

L’oggi le fa paura, pensando a Mia?

«Penso di aver paura per lei quanto mia madre l’aveva per me. Però… Io giocavo in cortile e lei comunica col telefono, insomma oggi si cresce più soli e individualisti; poi io giravo per Milano tranquilla e lei è protetta a tal punto che non sa affrontare una via buia tornando da scuola… Non sanno rapportarsi allo sconosciuto, agli altri, alle paure: e l’unica via rimane insegnar loro ad usare la testa».

Lei torna ai dischi dopo tre anni, fra concerti e il musical Evita: mica poco come periodo sabbatico…

«Eppure il mondo è andato avanti, a conferma che è inutile apparire per forza. Volevo recuperare sfumature del mestiere, concentrarmi sul piacere di farlo, sperimentarmi oltre la dimensione del canto».

E scrivere: come giudica Malika Ayane cantautrice?

«Le mancano i ritornelli! (Ride, nda) Non sono capace di scrivere hit, ma parlare del quotidiano è un tesoro: il mondo spinge lontano da una vita reale in cui lottiamo con le piccole cose, che invece ne sono il centro. Per tutti: artisti, operai, chef».

Nelle varie Nodi, Per abitudine, Imprendibile, Nobody knows, sprona di continuo chi ascolta a vivere davvero, a non perdersi: una scelta etica?

«Penso ci sia molto del tempo in cui viviamo, perché ho scritto parlando con la gente o guardandola nei bar, e ho visto che siamo disabituati a cercare dentro noi. Stiamo perdendo la dimensione decisiva dell’interiorità. In Quanto dura un’ora canto anche del tempo e dell’infinito, e anche lì di non buttarsi via perché noi infiniti non siamo: però io resterò sempre fabbricatrice di voli pindarici, temo…».

Dunque una canzone per lei vale ancora tanto…

«E può dire cose impegnative, sì. Dovrebbe permettere di immedesimarsi nei sentimenti che suggerisce, e di sperimentare pensieri diversi da quelli in cui ognuno tende a chiudersi. Penso possa aiutare una più matura e aperta consapevolezza di sé e del mondo».

Però serve che voi artisti scriviate pensando: o no?

«Beh, abbiamo il dovere di non scrivere stupidate… Leggerezza sì, vacuità no: serve attenzione, bisogna pesare le parole quando si scrive un testo».

Ora il tour, anzi due in uno: ma non è un peccato con un disco così curato? Soprattutto, non è un rischio?

«Un peccato no. Non volevo destabilizzare chi mi conosce a teatro e con sound più ruvidi sarebbe rimasto deluso: solo che io ho tutt’e due le anime… Rischio eccome. I fan o scelgono oppure mi dedicano due sere e due acquisti… La scaletta sarà quasi identica, ma cambieranno vesti dei brani e impatto, da ricerca di suono e ascolto a esperienza viscerale, collettiva. Però sa una cosa? Non credo si possa oggi rimanere in tempo e cuori se non curando al meglio l’oggetto disco, che peraltro ha significato due anni di lavoro, e soprattutto restando autentici. A costo di rischiare, anche di rischiare tanto».

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