giovedì 20 aprile 2017
Parla la rivelazione di Sanremo 2017: «Fossati mi ha indicato la strada, la meta futura è il teatro canzone Nella mia Scampia, il 90% è gente per bene»
Maldestro, come un Troisi della canzone
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La voce più originale del giovane cantautorato italiano, crea, vive e respira sotto il Vesuvio. E come Federica, quella della sua Canzone di Sanremo nuove proposte 2017 (2° classificato, premio della critica Mia Martini, Jannacci e Lunezia), Antonio Prestieri, per brevità artistica semplicemente Maldestro, «cammina, accumula strada». Una strada cominciata in salita per l’ex scugnizzo. «Un napoletano anomalo », si definisce il 32enne cantautore nato a Scampia, ad un passo da quelle Vele stonate di Gomorra “cantate” da Roberto Saviano. Antonio viene da un passato famigliare “difficile e doloroso” su cui la Bbc ci ha girato un docufilm trasmesso in mezzo mondo e da noi se ne è parlato e «c’hanno ricamato fin troppo» fin dal suo debutto discografico ( Non trovo le parole, del 2015). Ora per mettere definitivamente la parola fine su quella brutta storia Maldestro («nomignolo che deriva dalle mie distrazioni... che cominciano sul palco, con microfoni abbattuti, fili calpestati e cose del genere») nel suo secondo album I muri di Berlino ha inserito l’inequivocabile Io non ne posso più.

Brano che rimanda al Nuntereggae più di Rino Gaetano. «Diciamo che è la versione 2.0 della canzone di uno dei grandi che seguo da sempre. La passione per la musica me l’ha trasmessa mia madre Michela, non vedente dal parto: lei da piccola mi suonava il pianoforte mentre gli sedevo sulle ginocchia. E sempre per dna deriva anche da mio nonno Antonio Prestieri. È stato il primo produttore di quello splendido artista ed esempio di umanità che è Nino D’Angelo, il quale ha ricordato spesso mio nonno nei suoi spettacoli».

Suo nonno è morto giovane, a 36 anni: ma la folgorazione per il cantautorato quando è avvenuta?
«A 12 anni con Lindbergh di Ivano Fossati. È una canzone che ancora oggi quando l’ascolto mi fa tremare... Fossati e Giorgio Gaber “mi hanno rovinato”, in senso buono si intende - sorride - . Il cantautorato è l’inizio, il “teatro canzone” vorrei fosse il mio approdo futuro. Recito da sempre e tra i tanti spettacoli fatti ho alle spalle anche ventuno repliche di Novecentodi Alessandro Baricco, di cui ho letto tutto».

Lettore forte, studioso autodidatta e dopo ogni concerto torna alla prima passione, il teatro, che è anche un progetto solidale.
«Si chiama “Bambini senza sbarre” e giriamo per le carceri, lavoriamo con i figli dei detenuti. Portiamo il teatro nelle scuole, nelle università: dove ci sono ragazzi con le orecchie tese allora c’è la speranza di un cambiamento e la possibilità di dare strumenti di libertà a chi è stato meno fortunato di noi. Io amo il teatro proprio come luogo fisico, è il miglior posto in cui poter ancora esprimere e trasmettere quei valori di cui ha bisogno la nostra società».

Anomalo: la maggior parte dei giovani cantanti oggi crede che il luogo migliore per esprimersi siano le telecamere dei talent show.
«Quella, giusta o sbagliata, è una parte del nostro universo musicale. A me i talent non mi hanno mai avuto. Le mie radici musicali affondano nelle cantine. Quando sono arrivato a Sanremo ho conosciuto ragazzi che provenivano dai talent che non avevano alle spalle neppure un live. E rimanevano a bocca aperta quando gli raccontavo che avevo fatto anche 150 concerti in un anno, in giro per le cantine di tutta Italia».

Però Sanremo giovani l’ha vinto Lele... che con Maldestro e Clementino dicono siate la “nuova voce” di Napoli.
«Può darsi, ma siamo anche tre stili completamente diversi. Però c’è amicizia e massimo rispetto. Per sfotterli gli ricordo sempre che io sono l’unico napoletano “verace”, mentre loro vengono dalla provincia. Lele che sento quasi ogni giorno è di Pollena Trocchi, Clementino è di Cimitile. Clementino recita anche lui, mi impressionò quando lo vidi nella versione teatrale di Che ora è ? di Ettore Scola».

Il film con Marcello Mastroianni e un napoletano, di San Giorgio a Cremano, come il grande Massimo Troisi.
«Il mio punto di riferimento assoluto. Troisi per me viene prima dei pur straordinari Eduardo De Filippo e Totò. Io cerco di portare nella canzone lo spirito filosofico di Troisi: con la sua ironia e quella profonda leggerezza era riuscito ad abbattere i muri alzati dai luoghi comuni sulla cultura napoletana. I Muri di Berlino non è altro che la metafora di quelle pareti cementate dentro ognuno di noi e che vanno tirate giù, a cominciare dal quotidiano e dalla realtà in cui viviamo».

Una realtà in cui nelle sue canzoni denuncia il “tragico”. In Sporco clandestino canta: “Signor capitano ho soltanto dieci anni ed un mese e lei mi ripete che questo non è il mio Paese...”.
«Sono frasi e scene che ci piombano continuamente nelle nostre case, riportate dai media. Io sono cresciuto in una famiglia e una città come Napoli che mi ha insegnato la cultura dell’accoglienza. Soffro tanto nel vedere calpestata la purezza di quei bambini che arrivano da noi sui barconi per sfuggire alla fame e alla guerra. Quei bambini rappresentano il futuro del mondo, non hanno bagaglio e nemmeno uno spicciolo in tasca, ma portano dentro quella cosa straordinaria che è la “meraviglia”, che noi adulti abbiamo smarrito, magari lasciandola cadere in fondo al mare».

Torniamo alla poesia e a un brano come il suo Prenditi quello che vuoi che in quel “Ma tu resta, non andare. Aiutami a cambiare. Nessuno più di te mi può salvare”, richiama i versi di Piero Ciampi.
«Sono onorato di aver vinto il premio che porta il nome di quello che forse è stato il primo nostro vero cantautore. Piero Ciampi ha aperto la via a De Andrè e a tutti gli altri “poeti” della canzone italiana, ai quali forse non è un reato se ogni tanto, noi giovani cantautori rubiamo qualche perla che hanno seminato».

La Federica della Canzone sanremese sappiamo che fa mille lavori ma sogna di diventare attrice, a che punto è del cammino?
«Sta lavorando in teatro e mi telefona spesso per chiedermi i “diritti di ispirazione” di Canzone per Federica, come del resto fanno Lucì e altre sette-otto persone amiche che si sono riconosciute nelle canzoni de I muri di Berlino ».

E dell’effetto Sanremo cosa è rimasto?
«Io il Festival l’ho vissuto come un gioco. Ero andato a Sanremo per cantare una canzone mica per fare la guerra... C’era una adrenalina particolare e potrei anche riprovarla ma una carriera non si costruisce con due comparsate al teatro Ariston. Una volta sceso da quel palco cammini con le tue gambe solo se hai idee forti, originali e progetti condivisi con il pubblico».

A Scampia c’è più tornato?
«Spesso. Cerco di dare una mano a persone speciali, tipo il maestro di judo Gianni Maddaloni. Davanti alla sua palestra c’è un auditorium dove abbiamo in cantiere spettacoli ed eventi culturali: proveremo a sviluppare la creatività dei giovani che vivono lì. A dispetto di Gomorra, a Scampia posso assicurare che il 90% delle persone è gente per bene, che vive nella legalità e della fatica del proprio lavoro».

A proposito di lavoro, colpisce nel libretto de I muri di Berlinola dedica ai disoccupati che il “mio disco l’hanno scaricato in qualche modo” e a Claudio Nasti, nome che ci sfugge...
«Di disoccupati in Italia ce ne sono sempre di più, a cominciare proprio dall’industria discografica. La mia non è una provocazione nè un invito alla pirateria, ma semplicemente una mano tesa a coloro che se non lavorano non possono comprarsi quel pezzo di felicità che è la musica. E allora, anche se non acquistano il mio disco ma se lo scaricano sono felice lo stesso... Claudio Nasti è stato il mio professore delle medie. Quando tutti dicevano che ero soltanto un bulletto Claudio mi difendeva dicendo: “Antonio ha una sensibilità speciale e un giorno vedrete, diventerà qualcuno... Chissà, magari non si è sbagliato».

Le sue prime fan restano però mamma Michela e sua sorella Concetta, cosa gli hanno detto dopo i fasti sanremesi?
«A mamma dopo l’esibizione chiesi se fosse orgogliosa di me e lei rispose: “Io Antonio sarei stata orgogliosa di te anche se avessi fatto l’operaio”. Concetta mi sta sempre addosso, è la mia coscienza critica e vive attimo per attimo questo mio cammino».

La prossima meta?
«Sogno una collaborazione con Ivano Fossati, ma sarei felicissimo anche solo di conoscerlo, abbracciarlo e passare una giornata con lui e dirgli grazie di avermi indicato la strada».

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