sabato 18 luglio 2015
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Lui è in pensiero per l’automobile, lei si preoccupa di come dovrà truccarsi. Aspettate a indignarvi per lo stereotipo. Questa non è l’ennesima puntata di maschi contro femmine, ma la quotidianità vista dal versante più impervio: la malattia terminale. Uno dei tanti tabù del nostro tempo, nel quale corre l’obbligo di essere sani fino a quando non si è morti. Su ciò che sta nel mezzo non ci si sofferma, specie se comporta sofferenza e perdita di autonomia. «E invece il malato ha diritto a una vita normale e noi abbiamo il compito di preservare la sua dignità fino all’ultimo», ribatte Luciano Orsi, direttore della struttura di Cure palliative attiva dal 2009 presso l’Azienda ospedaliera Carlo Poma di Mantova. L’edificio principale è alto e squadrato, imponente. Di corridoio in corridoio si arriva allo slargo in cui sorge questa palazzina, costruita negli anni Venti in forma di pagoda e originariamente destinata ai tubercolotici. Adesso sotto il portico, riparata da cappello bianco e occhiali scuri, una paziente dell’hospice lascia che la figlia le finisca la manicure. La normalità della malattia è anche questo, è il padre di famiglia che chiede di seguire di persona, sia pure dalla stanza in cui è ricoverato, le pratiche per la vendita dell’auto, così da non lasciare alla moglie un altro grattacapo. Sono le donne che si presentano al Laboratorio estetico, dove le volontarie della onlus Iom (Istituto oncologico mantovano) le aiuteranno a scegliere la parrucca o il foulard più adatto, ma anche a dosare il fondotinta, a non esagerare con il rossetto. «La reazione è sempre soggettiva – spiega la psicologa Paola Aleotti –. Qualche tempo fa, per esempio, una ragazza in chemioterapia ha preferito rimanere calva, adottando però un make-up molto aggressivo. All’opposto può capitare che a richiedere la parrucca sia un uomo, per il quale la perdita dei capelli sarebbe un disagio intollerabile». Il Carlo Poma è un ospedale pubblico, uno dei pochi (ma non l’unico, come dimostra l’esempio non troppo distante di Crema) in cui le cure palliative sono perfettamente integrate nel percorso terapeutico. Non una risorsa estrema, ma una dimensione della cura. «In concreto – spiega Orsi – il palliativista partecipa al “giro” tra i pazienti anche prima che si manifesti un’immediata necessità del suo apporto. È un volto che i malati iniziano a conoscere, una persona con la quale si stabilisce una relazione. Quando viene il momento di intervenire, c’è già un fondamento di fiducia e confidenza su cui contare». L’hospice sta al piano superiore della pagoda ed è organizzato in stanze singole, in modo da garantire riservatezza a ciascun malato e ai suoi familiari. Un’altra rampa di scale separa dall’appartamento messo a disposizione dei parenti che arrivano da lontano. In corridoio, pronto a essere aggiornato, c’è il “Diario delle cure palliative”, uno zibaldone al quale affidare paure e speranze, messaggi di ringraziamento e confessioni personali. Appesi alla parete, lì accanto, i disegni dei bambini, nei quali si alternano arcobaleni sgargianti ed eroi dei cartoni animati. Una parte di questo materiale, rielaborata e commentata, si legge nel volume La notte può attendere (Paoline, 2013), che la giornalista Elena Miglioli ha realizzato per illustrare l’attività delle cure palliative al Carlo Poma. «L’hospice è fondamentale, ma non meno importante è la rete dell’assistenza domiciliare», aggiunge Rocio Cabarcas, responsabile delle cure infermieristiche. La centrale operativa sta al pianterreno: al visitatore salta subito all’occhio la grande carta della provincia di Mantova, sulla quale le puntine colorate si distribuiscono a disegnare una specie di foresta. Ogni puntina indica la presa in carico di un paziente e, insieme, lascia intuire una storia che chiede di essere ascoltata. Per questo ci sono i volontari, che fanno capo allo Iom e all’associazione “Maria Bianchi”, oltre che all’Unitalsi, alle diverse esperienze di solidarietà che rispondono con disponibilità crescente ai percorsi di formazione realizzati in collaborazione con la struttura diretta dal dottor Orsi. Si va dalla preparazione più propriamente tecnica, con un esplicito investimento sulla cosiddetta “aptonomia” (il metodo che invita ad entrare in relazione con il malato mediante il contatto fisico), alla sensibilizzazione attraverso cineforum, convegni, recital, iniziative rivolte alle scuole. «Li vede quei volti? – chiede il dottor Orsi – Sono gli autoritratti che gli studenti del liceo artistico di Mantova hanno eseguito dopo due ore di incontro sul tema della malattia». Nelle immagini qualcuno solleva la mano come per difendersi, altri sembrano pensierosi, molti sorridono, spunta perfino una linguaccia. «Il disinteresse dei ragazzi è un luogo comune – insiste il medico –, la verità è che di sofferenza nessuno ha il coraggio di parlare, tanto meno con loro». Anche la risposta dei bambini è sorprendente. «Vengono all’hospice per visitare i parenti ricoverati – spiega la dottoressa Cabarcas – e spesso sono i più pronti a intuire, i più delicati nell’affrontare la situazione. Tra i congiunti le resistenze maggiori vengono semmai dagli adulti, che cercano di nascondere a sé e agli altri una realtà che non sono in grado di accettare». A tutti, indipendentemente dall’età, viene fornito materiale informativo (c’è anche un dépliant rivolto specificatamente ai bambini). E poi ci sono gli psicologi, l’assistente spirituale. Un incarico, quest’ultimo, ricoperto da suor Brunella, una religiosa delle Ancelle della Carità che ci tiene a sottolineare come quella dell’équipe sia stata in primo luogo una scelta di laicità: «Non siamo in un ambiente confessionale – aggiunge – ma il sentimento di umanità è fortissimo, fortissima la consapevolezza che la ma-lattia obbliga tutti, credenti e non credenti, a confrontarsi con la domanda di senso. Io non nascondo la mia identità: indosso un abito, un velo, e so bene che questo potrebbe precludermi alcuni incontri. Nella pratica, però, succede il contrario. Si riesce a dialogare con tutti, anche con chi non è cristiano. Con i musulmani, per esempio. In qualche caso addirittura con i Testimoni di Geova. Nessuno ha risposte semplici nel momento in cui la morte si sta avvicinando, nessuno è già preparato, né può mai pensare di abituarsi». Lasciarsi ferire, almeno un po’: forse è questo che significa oggi “visitare gli infermi”. E non arrendersi all’oblio, non rispettare la consegna della smemoratezza. Il presidente dello Iom, Attilio Anserini, va particolarmente fiero della Giornata del Ricordo. La celebrano qui, dentro l’ospedale, in un giardino che sta lentamente rifiorendo e che hanno voluto ribattezzare “Hortus Conclusus”, con un termine che rinvia alla tradizione monastica. Musica, poesie, qualche momento di silenzio che renda di nuovo presente chi se n’è andato in tutta la pienezza e con tutta la dignità che ogni essere umano merita. «Morire in un reparto come il vostro è un privilegio», recita una delle testimonianze raccolte in La notte può attendere. Il dottor Orsi annuisce, ma non sembra troppo soddisfatto. «Dovrebbe essere la regola, non l’eccezione », commenta. Anche lui, alla fine, ripete una parola che ritorna spesso in questo viaggio tra le opere di misericordia: bellezza. Vale per il corpo che vive, vale per il corpo che soffre. Vale anche, e specialmente, per il gesto umile e solenne della cura.
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