venerdì 20 dicembre 2019
All'Aia e a Delft due maestri del Secolo d’Oro vengono riscoperti con le retrospettive ai musei Mauritshuis e Prinsenhof. Il mondo domestico e la «civiltà dell’immagine» dei mercanti neerlandesi
Nicolaes Maes, "Ritratto di famiglia" (1675-76)

Nicolaes Maes, "Ritratto di famiglia" (1675-76)

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LʼAia Nel museo che ospita alcune delle opere più celebrate di Vermeer – la fascinosa e imperturbabile Veduta di Delft e la fotogenica Ragazza con l’orecchino di perla –, vale a dire la Pinacoteca Mauritshuis all’Aia, si tiene una importante retrospettiva di Nicolaes Maes, la prima in assoluto di livello internazionale, che pur esponendo solo trentadue delle quasi mille opere a noi pervenute, rappresenta bene il genio di questo grande pittore del Seicento olandese sul quale a lungo la critica si è interrogata.

Ci fu un tempo in cui i pittori col cognome Maes sembrarono in realtà due, tanto era diverso lo stile delle opere. Grazie a questa mostra, si potrebbe dire che ne veniamo a conoscere un terzo, il vero Nicolaes Maes, sintesi degli altri due: il Maes degli inizi, «versatile discepolo di Rembrandt», soprattutto nei quadri di soggetto biblico che in qualche caso vennero anche attribuiti al maestro (si veda in mostra la tela del Cristo che benedice i bambini o il Ritratto dell’apostolo Tomaso entrambi del sesto decennio del secolo); e poi il Maes che alterna scene di vita quotidiana e domestica – donne che ricamano o intente nei lavori domestici, oppure le “origliatrici”, donne che spiano quel che accade in una stanza sotto i nostri occhi e si rivolgono allo spettatore col tipico gesto di fare silenzio (in genere la spiritosa signora, con compiaciuto sorrisetto, si beffa di persone addormentate al tavolo o su una sedia, cadute nel sonno per stanchezza o per aver ecceduto nel bere, oppure osserva il rapinoso bacio di due innamorati). Questo pittore, uno dei precursori del soggetto domestico, è lo stesso che dipinse centinaia di ritratti da cui ebbe fama e ricchezza. Molti erano ritratti della nobiltà, eleganti, pieni di virtuosismi pittorici, ma non di sprezzature. Come le splendide tele Ritratto di giovane cacciatore col segugio e Una giovane col cervo le cui identità sono oggi sconosciute. Ma in altri casi il personaggio porta nome e cognome e spesso fa parte di quella borghesia di commercianti e notabili che rese l’Olanda del Seicento una potenza economica europea. Due soltanto le tele esposte con più figure: una Famiglia oggi d’identità ignota e I rappresentati della gilda dei barbieri di Amsterdam (che pur essendo una delle opere più tarde riprende ancora certi modelli rembrandtiani anche se ormai Maes si è completamente affrancato dallo stile pittorico del maestro).

Se stiamo alle regole delle proporzioni, si nota una chiara disparità in mostra nel numero di tele dei diversi temi praticati da Maes: lasciando da parte quello biblico- rembrandtiano, è evidente che la rassegna vuole esaltare il genere domestico e popolare a parziale svantaggio del ritratto. I dati numerici parlano chiaro e ci dicono che il catalogo di Maes somma quaranta opere domestiche e novecento ritratti: le prime sono circa metà delle opere esposte. Evidentemente, Ariane von Suchtelen, curatrice della mostra, ha ritenuto che il soggetto domestico fosse la “novità” portata da Maes, mentre la qualità pittorica complessiva, molto alta, è viatico necessario per riconoscere al pittore – nato a Dordrecht nel 1634 e morto ad Amsterdam nel 1693 –, la patente di anticipatore di un tema pittorico che si ritrova anche in Vermeer e De Hooch: il primo nato e morto a Delft (1632-1675) senza probabilmente mai allontanarsi troppo dalla sua città, il secondo nato a Rotterdam nel 1629 e morto ad Amsterdam nel 1684, ma attivo anch’egli a Delft negli anni in cui Vermeer metteva a punto il suo stile e il suo linguaggio (ossia, dal 1652 al 1660). Entrambi più anziani di Maes, colsero però la novità della sua ricerca sulla visione accurata, quasi lenticolare della realtà quotidiane, delle piccole cose, del realismo immanente e tacito che ben si concilia col noto pragmatismo olandese.

In realtà, Maes, come in modo sublime Vermeer e in modo più costruito prospetticamente De Hooch, sfidano quel pragmatismo giocando sul colore e la luce con una modernità che sicuramente mette a frutto gli intrecci europei della pittura italiana e francese. Sono realisti, ma non troppo “oggettivi”; il loro luminismo si sposa a un disegno attento dei dettagli, ma il tono allegorico, e talvolta aneddotico, non si rende mai materialistico o prosaico.

Lo si può costatare anche nell’altra importante retrospettiva al Museo Prinsenhof di Delft sull’opera di Pieter de Hooch, anche per lui la prima allestita in Olanda. Sulle pareti del Museo, oltre a vedere esposti i quadri di De Hooch, sono venerati come feticci i fori di proiettile sparati contro Guglielmo d’Orange che qui si era trincerato per resistere alle mire della cattolica Spagna sulla calvinista Olanda. Quando ci si chiede come sia possibile che i discepoli notevoli dei due maestri olandesi del tempo, vale a dire Rembrandt e Vermeer, abbiano dovuto aspettare fino a oggi per vedersi risarciti dei loro meriti, si deve considerare che questa pittura è stata lungamente ritenuta una versione ribassata delle più elevate atmosfere ideali ed emozionali dei due grandi.

La mostra curata da Anita Jansen e David de Haan, presenta una scelta di opere che privilegiano le vedute d’interni e delle corti domestiche. E per quanto si possa ritrovare in queste tele una luce tersa che può far pensare all’influenza di Vermeer (come il sottotitolo dichiara) in realtà il gioco visivo di De Hooch privilegia le articolazioni spaziali, i primi secondi e terzi piani, le zigzaganti teorie che, rese dinamiche dalle scacchiere dei pavimenti, fanno di lui una sorta di illusionista dell’oggettività. Come uomini formati dall’arte del Novecento, verrebbe da dire che lo spazio di De Hooch è concreto e astratto, reale e surreale, geometrico e smaterializzato. E nel mezzo stanno le “figurine” umane di un teatro che ripete ogni giorno i suoi gesti comuni, celebra l’abito feriale oppure quello della festa, descrive ragnatele di segni sui muri dove regna incontrastato il tipico mattone rosso, le finestre sono affacci prospettici e le porte vie di fuga per lo sguardo.

Nelle scene in esterno, l’occhio è sempre trattenuto ad altezza d’uomo e i cieli, le luci e la chiarità dell’aria sono il contrappunto all’immobilità di un dramma quotidiano nel quale il silenzio è proprio quello calvinista di un mondo dove la predestinazione riguarda pochi e gli altri vivono in dignitosa rassegnazione. L’Olanda ricca e capace dei più redditizi commerci non bastava, forse, a garantire una salvezza collettiva, ma in questa pittura il miracolo sembra a portata di mano.

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