martedì 8 dicembre 2015
COMMENTA E CONDIVIDI
«Un patrizio di censo non larghissimo ma di altissime doti di cuore e di mente morì a 82 anni nel 1796 lasciando la propria pinacoteca, a cui volle fosse affiancata un’accademia di disegno, al pubblico godimento». Così in un documentario d’archivio Rai la presentazione agli spettatori di uno dei tanti tesori misconosciuti del Belpaese: l’Accademia Giacomo Carrara di Bergamo. Chiusa per restauri e ristrutturazione nel 2008 viene riconsegnata alla città dopo sette anni. Davide Ferrario, regista di film e documentari che dagli anni 80 indagano il mutare della società in cui viviamo – un episodio di microcriminalità provinciale, la nascita della Lega Nord, la condizione giovanile tra miti e riti urbani, la vita in carcere, li ricordo senza indagare – ne ha tratto un documentario che la presenta e la ripropone al «pubblico godimento» come da originaria intenzione. Il mio rapporto con Davide Ferrario è di lunga durata. Per lui sono stato attore improbabile, comparsa cantante, interlocutore attento e problematico in discussioni mai finite. Coinvolto nella realizzazione di due documentari: Materiale Resistente e Sul 45° Parallelo; e in una impresa rimasta, per me, sospesa: un viaggio, ricognizione politica ed esistenziale, tra le rovine di Mostar ancora fumanti. Le conclusioni divergenti che ne abbiamo tratto hanno facilitato un allontanamento senza intaccare la stima, la riconoscenza, l’affetto. È ricomparso a primavera, quest’anno, e mi ha proposto di leggere, voce e presenza, un testo di Vasilij Grossman: La Madonna Sistina. Ho accettato volentieri, sulla fiducia, non sapevo niente di ciò a cui stava lavorando. Così mi sono ritrovato nel bel mezzo delle riprese, sul palcoscenico del Teatro Sociale di Bergamo, anche questo appena restaurato. Due musicisti, due amici, a tessere tappeti sonori mentre la mia lettura cercava tono, scansione e ritmo. A destra Gianni Maroccolo ed il suo basso elettrico, cupo e dilatato in corposa dinamica; a sinistra Paolo Simonazzi e la sua ghironda, trattenuta nelle linee melodiche ed in cerca di sonorità psichedeliche. Sala ed ordini di palco vuoti ed al buio alle mie spalle, e a tutto schermo, davanti a me, alle spalle dei musicisti, particolari ingigantiti di pale e tele dipinte nei secoli, raffiguranti la Madonna, conservate nell’Accademia. Una presenza aliena, un drone con incorporata cinepresa, muovendosi ronzante a un metro da terra entra in teatro, traversa la platea, sale volteggiando sul palco e mi sfiora poi si alza, a ritroso, per una panoramica da loggione. All’esterno una giornata d’estate, assolata ed indolente. Il centro storico di una città bellissima – come lo sono le antiche città europee e italiane in particolar modo – in vistosa mutazione. Luoghi sem- pre meno abitati e sporchi di vita, sempre più turistici ed asettici e funzionali. Lo certificano le vetrine, i prezzi, la gente per strada affaccendata in niente ed intenta al particolare da fotografare, con cui postarsi. A fine estate mi è arrivato il montaggio del film. Guardavo con timore la custodia del dvd e rimandavo, con ottime scuse, la visione: troppo da fare, troppi pensieri di tutt’altro tenore. Poi l’ho affrontato e ne sono stato rapito. Una piazza, un chiostro, una cascata e la riproduzione, in dipinti, delle stesse. Un montaggio sapiente, una musica sinuosa. Il gioco è affascinante, sa prendermi, mi lascio prendere. «Cosa vediamo quando guardiamo un quadro?» C’è una storia da raccontare, c’è una storia da ascoltare. Impone riflessioni. I problemi insoluti ed insolubili ma vitali si ripropongono ad ogni generazione. Cosa è l’uomo? Si può anche cominciare, ricominciare per l’ennesima volta, guardandone i ritratti. Come cambiano nei secoli. Come restano contemporanei. Guardi uno sguardo in un dipinto seicentesco e lo ritrovi vivo, vociferante, al ristorante un’ora dopo. Iconografia, idolatria, iconoclastia, un pezzo di umanità s’aggira in una foresta di immagini che teme e venera, crea e distrugge. Non può farne a meno, segnano il suo relazionarsi alla creazione, alle creature, al Creatore. Il suo sentirsene ed esserne parte ma anche il rifiuto, la rivolta. Negazione e distruzione.  Santi e Martiri dipinti ritraendo i propri vicini, salvaguardandone unicità e verosomiglianza ed al contempo trasfigurandoli in simbologie capaci di sostenere l’apprendimento e la memorizzazione, tanto godimento estetico che nutrimento dello spirito. Immagini pensate e realizzate per contesti religiosi ed attitudini devozionali ora allineate in spazi estetici e didattici. Salvate dalla distruzione e mutilate di senso. Impoverite nel valore ed arricchite nel prezzo, comunque preziose ed indispensabili all’uomo. Due, al mio sguardo, i protagonisti, veri numi tutelari del racconto. Entrambi a lato sbucano e restano lì anche quando non sono più in scena: l’ultimo custode dell’Accademia prima della ristrutturazione e la città che la contiene.  Cesare, il custode, si presenta «a digiuno di tutto» ma per vicinanza fisica e quotidiana frequentazione sa di avere imparato ad «amare l’arte». È l’immagine più schietta e sorprendente di una civiltà umanistica a misura d’uomo, per propor- zione e tempi, che va a scomparire tra tecnologie sempre più raffinate e segmentazioni a crescere nelle competenze e nelle responsabilità. Se c’è un erede vivente, e il più improbabile, dei committenti e dei collezionisti che hanno reso possibile la storia dell’arte europea, non è tra i critici, gli esperti internazionali, né tra i dirigenti museali che va cercato: è Cesare che, in compagnia della figlia bambina, traversa le sale di notte con la pila accesa.  Le stanze vuote dell’Accademia, il recupero della tela affidata al Comune, la sontuosa ripresa a ritroso e verso l’alto della cattedrale con l’uscita sui tetti, le cupole, i campanili della città alta, l’entrata a teatro, da soli valgono il film. Una bellezza struggente che le riprese documentano e insieme relegano ad un tempo che va a finire. Un mondo di proporzioni classiche in cui l’uomo è misura del contesto. Al di là di questo, subito dopo, lo spazio s’allarga a dismisura, cresce prepotente in altezza, e siamo all’oggi. Poi ci sono i quadri e valgono un viaggio, una visita di persona. Un’ultima considerazione su Vasilij Grossman di cui leggo, nel film, alcuni stralci. È un autore da conoscere, frequentare, rispettare ed amare. In lui è racchiuso, testimonianza indelebile, il nocciolo vitale del secolo breve. Non è facile avvicinarlo, tanto fluido e tumultuoso il suo raccontare tanto doloroso e terribile il succedersi degli avvenimenti che racconta. Vita e destino, uno tra i grandi romanzi che da soli valgono la letteratura – e si possono e si devono stampare e commerciare milioni di libri per permettere a questi pochi di esistere – sta sul mio tavolo da qualche stagione. Lo prendo tra le mani, lo apro con timore, leggo alcune pagine e devo smettere. Mi prende l’angoscia. Ma non l’allontano, anzi lo tengo a portata di sguardo: è un monito potente. Contiene, con forza sovrumana, briciole miserrime e rimasticate di pura bontà, di smisurato amore. E tanto basta, ne avanza, per voler andare avanti. La Madonna Sistina sta in un libro di racconti che dall’ultimo prende il titolo Il bene sia con voi!. È un libro da leggere, da consigliare, da regalare. Io lo ho aperto a caso e, a caso, ho letto «La guerra non risparmiò nessuno nella penisola percorsa dalla dorsale appenninica» un tonfo al cuore: l’ha scritto per me? Racconta di un mulo italico e di una cavallina di Vologda, due creature non insensibili nell’infermo dell’ultima guerra. Cinque paginette e scorre il mondo, la vita, nel suo tragico inabissarsi ma un bagliore, tenue e minuscolo, resta. Si potrà ricominciare. La Madonna Sistina è un affresco potente, una profonda meditazione che veloce traversa i secoli e le vicissitudini dell’uomo senza tralasciare le altre creature che ne condividono l’esperienza sulla terra. Una sola frase mi ha lasciato perplesso, ho pensato che non l’avrei letta poi, dopo un lungo rimuginare, ne ho sorriso di cuore. Non è sempre facile trovare il giusto complimento data una particolare situazione. «Penso che questa Madonna sia l’espressione più atea della vita, di quell’umano a cui il divino non partecipa ». Ce n’è da far sobbalzare teologi e fedeli ma niente mi toglie dalla testa che è il più bel complimento pubblico che si potesse rivolgere a Maria nella Russia comunista del 1955. Ed è bello per la Madre di Dio. Leggetevi le ultime 5 righe. Pura profezia. E, se vi capita, andate a vedere il film di Davide Ferrario. Muove pensieri che vanno pensati.
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: