giovedì 29 ottobre 2015
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Il nostro Paese, l’Occidente, l’età che stiamo vivendo, sono un pozzo senza fondo di contraddizioni. Prendiamone una di quelle in apparenza meno allarmanti: la storia. Per certi versi sembrerebbe una delle grandi passioni del nostro tempo: il cinema, i serial televisivi, i war games, le feste e i festival, la gadgettistica di ogni genere, la straripante divulgazione con i suoi immancabili "misteri" (i disegni sulle Ande visibili solo dall’alto, le piramidi, il Graal, i templari, il "nazismo magico"). Con queste premesse, si potrebbe pensare che anche a scuola e nelle università le discipline storiche vadano alla grande. Macché. A scuola, i professori insegnano di malavoglia e gli scolari restano assenti e disinteressati. All’università, i corsi di storia vanno deserti e il numero delle relative cattedre si sta riducendo a vista d’occhio: chi può emigra all’estero dove non è detto che trovi una situazione migliore. Pochi fra i ragazzi che appena possono si vestono da balestrieri a Gubbio o a Borgo Sansepolcro o da granatieri di Napoleone a Waterloo pensano poi a iscriversi a una facoltà di storia. La storia-evasione, la storia-divertimento, addirittura la storia-passione o la storiomania vanno benissimo. La storia-studio, la storia-scienza, manco per idea. Perché?Tutto ciò almeno in parte si spiega con la congiuntura. Le discipline storiche sono socialmente e civicamente importanti nelle società e nei momenti nei quali esistono forti passioni civili o in cui s’impone comunque un modello "forte" da seguire o da contrastare. Come antidoto, è davvero raccomandabile la lettura di un piccolo libro or ora edito dalla Laterza, il Dialogo sulla storia tra due protagonisti della ricerca, il medievista Jacques Le Goff e l’antichista Jean-Pierre Vernant: due studiosi di successo ai quali la definizione che li collega alla loro rispettiva specializzazione va senza dubbio stretta. Entrambi hanno saputo difatti coniugare in modo e a livello differente discipline quali la storia, l’antropologia, la filologia, l’iconologia. In questo libro, resoconto di un’intervista a due voci condotta da Emmanuel Laurentin, essi riescono con straordinaria immediatezza a far piazza pulita di alcuni tra i più correnti falsi miti, i più noiosi pregiudizi e i più banali luoghi comuni che di solito  rendono la storia una materia monotona per chi la insegna e insopportabile per chi cerca di capirci qualcosa (al di là dello sterile "imparare" nomi, date ed eventi). Anzitutto, la "vocazione" storica. Alla base del grande lavoro sia di Le Goff, sia di Vernant, ci sono stati la vita e il caso: nulla di paludato, nulla di austeramente perseguito. I due studiosi insistono sulla loro giovinezza, sulle loro vocazioni politiche (socialista l’uno, comunista l’altro), sull’incontro con straordinari maestri quali Braudel e Dumézil. In entrambi è rimasto intatto, a distanza di decenni, lo stupore per la bellezza e il fascino d’una strada, quella della ricostruzione del passato, intrapresa quasi per gioco o per fatalità.Quindi, l’evento. Le Goff e Vernant hanno fieramente combattuto contro la bestia nera degli insegnanti e degli studenti: l’histoire événementielle, la storia dei fatti. A questo proposito comunque si è distinto tra "evento" e "fatto" vero e proprio, e d’altra parte nel dibattito storiografico si è presentato anche quello ch’è stato definito il "ritorno dell’avvenimento". Ancora, il determinismo storico, la "causalità": la pesante stolida catena di cose che sono accadute e che più o meno artificiosamente sono collegate (di solito con espedienti quali il post hoc, ergo propter hoc) a dimostrare che quel ch’è accaduto doveva accadere, e che doveva accadere perché è accaduto. Su tali artifizi si sono costruite vere e proprie dottrine sul piano della filosofia della storia e sulla sua “ragione immanente”, sul suo “senso”.Qui, al contrario, parlano due Maestri dell’antideterminismo, due fedeli alla tesi che le strutture profonde e le istituzioni storiche sono anzitutto radicate nella libertà: e che tale libertà è anzitutto quella dello storico e della sua interpretazione. Lo stesso "evento", in sé, non è il dato obiettivo della storia a determinarlo, bensì l’interpretazione dello storico. Padroni, se volete, di stupirvi e perfino d’indignarvi. Certo, dopo Lévi-Strauss e lo strutturalismo, nemmeno Derrida e il decostruzionismo hanno attraversato invano la strada di quanti pensavano che, quanto al senso della storia, dopo l’hegelismo (di destra o di sinistra che fosse) non c’era più nulla da dire. E magari, anche il vecchio Nietzsche delle Considerazioni inattuali al suo tempo inascoltate ha in seguito avuto parecchio da dirci. Infine, la biografia: grande passione degli amateurs e di alcuni insegnanti, abbastanza antipatica alla grande maggioranza degli storici (don Benedetto Croce a parte) per quanto poi molti di essi v’indulgano eccome. Ma al riguardo, discutendo la genesi del suo San Luigi e il rapporto tra il personaggio biografato e il suo tempo, Le Goff ha agio di rimetter le cose a posto.Oggi, cadute le illusioni della historia magistra vitae, la testimonianza di Le Goff e di Vernant c’insegna, in sintesi, che il vero assoluto non è oggetto della ricerca storica, vòlta per contro ad affermare verità storiche sempre perfettibili in quanto il passato una volta passato non muta bensì mutiamo noi, le nostre esigenze, le domande che gli poniamo, i nostri strumenti e metodi di ricerca. La storia resta una disciplina dalla quale i dogmi sono per loro natura banditi: ed è, per sua natura, revisione. O non è nulla.
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