domenica 31 maggio 2020
Nel suo diario scritto durante i giorni di lockdown Riccardo Maccioni indaga la “banalità del bene”
La speranza non è andata in quarantena

Ansa

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Lei ha 85 anni ed è danese. Lui di anni ne ha quattro in più ed è tedesco. Non si sa come e quando si siano innamorati né perché vivano separati, ciascuno nel rispettivo Paese. Si conosce solo come hanno deciso di vivere il loro “amore al tempo del Covid”. Anziché limitarsi al telefono, ogni giorno, i due spasimanti prendono una borsa con qualcosa da mangiare, una seggiolina e un tavolino pieghevole e corrono fino al confine di Aventoft. Là, proprio a cavallo della frontiera, trascorrono le ore, l’uno di fronte all’altra, in una merenda condivisa ma distanziata dalla rete metallica. Lontana migliaia di chilometri, l’Italia è in pieno lockdown. A scandire le giornate sono i bollettini della Protezione civile con le loro centinaia e centinaia di morti e contagiati. Eppure, oltre a qualcuno che spieghi i numeri, sempre tragicamente devastanti, le persone sono affamate di storie di speranza. «O almeno racconti di resistenza, di normalità anche rattoppata e di seconda mano, di libertà difesa o riconquistata».

E, allora, grazie alla penna di Riccardo Maccioni (caporedattore di Avvenire) la vicenda dei due amanti over ottanta e del loro pic nic transfrontaliero diviene metafora del soffio vitale che la morte non riesce a soffocare nemmeno nell’era della “grande pandemia”. Un’epoca ancora in corso, eppure già una «crisi all’imperfetto» nonostante la polvere dei giorni d’isolamento sia appiccicata sui vestiti. Serranda aperta dopo serranda aperta stiamo vivendo il momento clou, in cui ognuno è costretto a chiedersi se «siamo tutti sulla stessa barca» o «nessuno si salva da solo» fossero semplici slogan o coman- damenti di vita. «E allora forse sentirai il bisogno di fare un passo indietro, di riavvolgere il nastro della memoria, di riandare al momento in cui tutto è iniziato, di riscoprire le radici, senza le illusioni di tagliarle per ricominciare da zero». A quest’esigenza intima e al contempo collettiva – speriamo comunitaria – risponde Dalla strada arriva profumo di pane, il diario di 59 giorni di quarantena nazionale, dal 7 marzo al 5 maggio 2020, scritto da Riccardo Maccioni, «rigorosamente al mattino presto», come racconta, e pubblicato in ebook da Ares. Difficile per qualunque lettore non ritrovare frammenti del proprio vissuto nel racconto dell’autore. La città avvolta nel silenzio, «un silenzio irreale, artefatto, spesso come la nebbia che non ti fa vedere avanti», «come se qualcuno avesse tolto l’audio al mondo». Le finestre tutte illuminate al calar del sole, in un «mondo di cortili che non gridano e non giocano più». La paura del virus che inaridisce «ogni pensiero, parola, gesto che non faccia riferimento al contagio», impedendo ai lettori più avidi di andare oltre le prime pagine e costringendo gli amanti della scrittura a rassegnarsi a uno scarabocchio. I balconi canterini zittiti progressivamente dalla strage.

Le domeniche senza Messe reali, che sembrano lunedì, mentre il Paese e il pianeta sono prigionieri di un eterno Sabato Santo. Il suono della sirena intrecciato a quello delle campane durante la preghiera straordinaria del Papa, nella piazza San Pietro vuota. L’irruzione della Pasqua per scoprire «che l’aspettavi, che ne avevi voglia, «che gli occhi del cuore cercano tesserine nuove per il puzzle della speranza». La brama di domani che «diventa così ingombrante e avida da far dimenticare l’oggi, il presente», mentre si avvicina il fatidico 4 maggio. Una ripartenza molto lontana dalla normalità «perché non è normale affatto una città in cui ci si tiene a distanza, senza studenti e col viso coperto fino agli occhi». Pagina dopo pagina, aneddoto dopo aneddoto, dettaglio dopo dettaglio, l’autore compone un mosaico di memorie vive, «quelle che se le lasciamo fare, possono diventare guide e maestre». Sull’esempio della studentessa che in pieno “tutti a casa” continua a studiare sul piccolo tetto, capace di guardare avanti. Dalla strada arriva profumo di pane non è una cronaca, ma un inno appassionato, autentico, mai retorico alla “banalità del bene” che, vivendo pienamente l’oggi, riesce a parlare al futuro. Una di quelle storie, dice papa Francesco nel recente messaggio per la Giornata delle comunicazioni sociali, che ci aiuta a non perdere il filo tra le tante lacerazioni dell’oggi; che riporta alla luce la verità di quel che siamo, «anche nell’eroicità ignorata del quotidiano».

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