mercoledì 5 maggio 2010
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Che senso ha oggi leggere le beatitudini? Perché meditare su queste paradossali parole di Gesù? Innanzitutto, credo, per una ragione umanissima. Nel contesto socioculturale in cui viviamo, noi cristiani siamo chiamati, oggi più che mai, a mostrare con la nostra vita cammini di umanizzazione e di salvezza percorribili da tutti gli uomini. Ora, la maniera più efficace per scoprire questi cammini consiste nel praticare la ricerca del senso, esercizio che ai nostri giorni pare sempre più raro: è diventato difficile, soprattutto per le nuove generazioni, dare senso alla vita e alle realtà che la costituiscono, tanto che da più parti si levano voci che denunciano la «crisi del senso». In questa situazione noi cristiani dovremmo saper mostrare a tutti gli uomini, umilmente ma risolutamente, che la vita cristiana non solo è buona, segnata cioè dai tratti della bontà e dell’amore, ma è anche bella e beata, è via di bellezza e di beatitudine, di felicità. Chiediamocelo con onestà: il cristianesimo testimonia oggi la possibilità di una vita felice? Noi cristiani ci comportiamo come persone felici oppure sembriamo quelli che, proprio a causa della fede, portano fardelli che li schiacciano e vivono sottomessi a un giogo pesante e oppressivo, non a quello dolce e leggero di Gesù Cristo (cfr. Mt 11,30)? In realtà mi pare che spesso ci meritiamo ancora il rimprovero rivolto ai cristiani da Friedrich Nietzsche oltre un secolo fa: [I cristiani] dovrebbero cantarmi canti migliori perché io impari a credere al loro redentore: più gioiosi dovrebbero sembrarmi i suoi discepoli! Certamente la via cristiana è esigente, richiede fatica e sforzo al fine di «entrare attraverso la porta stretta» (Lc 13,24; cfr. Mt 7,13) ed essere conformi alla chiamata ricevuta. Non serve ricordare le tante esortazioni pronunciate da Gesù in questo senso, condensate nel suo monito: «Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua» (Mc 8,34 e par.). D’altra parte, secondo l’insegnamento di Gesù e, ancor prima, secondo il suo esempio, la vita di chi si pone alla sua sequela non solo vale la pena di essere abbracciata ma è causa di beatitudine, è fonte di felicità. È proprio qui che si situa l’annuncio delle beatitudini, che potremmo definire il cuore dell’etica cristiana: un’etica – va detto con chiarezza – che non è tanto una legge o, peggio, una morale da schiavi, quanto uno spirito e uno stile, quello annunciato e vissuto da Gesù nella libertà e per amore, quello in cui Gesù ha trovato la felicità. Sì, le beatitudini sono una chiamata alla felicità. Sappiamo bene che solo quando gli uomini conoscono una ragione per cui vale la pena perdere la vita, cioè morire, essi trovano anche una ragione per spendere quotidianamente la vita e, di conseguenza, sono felici. Ebbene, le beatitudini aiutano a scoprire questa ragione e così consentono di dare un senso alla vita, anzi conducono al «senso del senso»: Gesù proclama beati uomini e donne i quali vivono alcune precise situazioni in grado di rendere pieno di senso il loro cammino umano sulla terra e, per quanti hanno il dono della fede, in grado di facilitare il loro cammino verso la comunione con Dio. Ma il primo e più elementare senso delle beatitudini – lo ribadisco – è la felicità, la gioia di scoprire che grazie all’assunzione consapevole di un atteggiamento, di un comportamento, si può vivere un’esistenza che, pur a caro prezzo, ha i tratti di una vera e propria opera d’arte: la povertà in spirito, il pianto, la mitezza, la fame e la sete di giustizia, la misericordia, la purezza di cuore, l’azione di pace, la persecuzione subìta a causa della giustizia, sono situazioni capaci di produrre beatitudine già qui, in questa vita, e poi nel «mondo che verrà», quello in cui Dio regna definitivamente. Insomma, per rendere realtà la buona notizia del Vangelo occorre vivere le beatitudini. A tale riguardo, lungo i secoli c’è sempre stato chi si è interrogato sull’attuabilità delle beatitudini, sull’effettiva possibilità che queste fossero qualcosa di più di semplici parole utopiche, prive cioè di un «luogo», di una realizzazione storica, a livello personale o comunitario. Vi è chi ha affermato che le beatitudini valevano solo per i contemporanei di Gesù e per la prima generazione cristiana, ossia per coloro che hanno vissuto in modo irripetibile l’urgenza escatologica; vi è chi, in seguito alla svolta costantiniana e poi con particolare insistenza nel secondo millennio, ha letto le beatitudini come «consigli» riservati solo ai monaci e ai religiosi, coloro che «abbandonano il mondo»; e potremmo continuare nell’elenco di queste interpretazioni riduttive. Oggi, come in ogni generazione, siamo chiamati a lasciar risuonare la nuda domanda: è possibile vivere le beatitudini qui e ora? A mio avviso tale interrogativo ha sempre ricevuto e può ancora ricevere una risposta positiva, non però in modo trionfale o sovraesposto, non attraverso forme eclatanti che si impongano agli occhi degli altri uomini, bensì nelle vite quotidiane, sovente nascoste, di tanti uomini e donne: persone che, nonostante le loro contraddizioni e il loro peccato, hanno cercato e cercano di seguire il Signore Gesù vivendo il suo stesso stile di vita, lo stile «scandaloso » delle beatitudini. Sì, è sempre stato e sempre sarà possibile vivere le beatitudini:
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