sabato 25 giugno 2011
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Durante Sudafrica 2010 – lo sfortunato (per i colori azzurri) e primo mondiale «nero» di calcio – questo giornale pubblicò un breve testo del teologo Joseph Ratzinger sul valore «trascendente» del pallone. Il mix di regole e gratuità, – sosteneva il futuro Papa – rende lo scontro tra le due squadre che inseguono una palla lo spazio in cui toccare con mano che non tutto è mercato, non ogni cosa risulta calcolabile e che il gratis costituisce quanto più ripaga il cuore dell’uomo. «Oggi non esiste più lo sport. Rimane solo il gioco. D’azzardo, però. Invece è lo sport che rivaluta il gioco, perché con lo sport l’Occidente ha fatto del gioco una disciplina regolata, mettendo insieme ordine e creatività». Stefano Ferrio di calcio ne conosce, scrive e parla da una vita: ora insegna Storia della Tv all’università di Padova, ma per anni ha lavorato come cronista al Giornale di Vicenza e al Gazzettino. Ha appena dato alle stampe La Partita (Feltrinelli, pp. 206, euro 15), romanzo d’ambientazione anni Settanta, tra ideologie estreme e un Veneto profondo, in cui la narrazione sulla passione per il vero calcio fa tutt’uno con la rievocazione di una terra (e valori) oggi scomparsa. E il recente scoppio di una nuova Calciopoli, partite truccate e atleti corrotti per vendere match ai migliori offerenti, offrono a Ferrio l’occasione per riflettere: «Già Pindaro, nelle sue Elleniche, raccontava di tentativi di combine politiche durante i giochi olimpici. Dunque, non c’è niente di nuovo sotto il sole. Di solito crediamo che gli scandali che accadono oggi siano qualcosa di inedito, invece rappresentano una costante del tempo». Nel romanzo di Ferrio, costruito in maniera prolettica su una «Partita Interrotta» tra due squadre interpreti di due visioni del mondo opposte (l’Inghilterra progressista-operaia, il Bar Fantasia di estrazione borghese), compaiono ficcanti riferimenti a quell’etica sportiva che ai nostri tempi, tra cronache di sonniferi pre-partite e radiazioni di team manager (vedi il caso Moggi), sembra drammaticamente latitare. «Ciò che conta è il ruolo avuto nell’evento da ogni giocatore in campo. Nessuno escluso, e tutti insostituibili – esemplifica uno dei protagonisti di Ferrio in un denso passaggio del romanzo –. In modo che chi vince sia per sempre riconoscente a chi perde, per una gioia che mai avrebbe provato senza aver lottato fino all’ultimo istante contro un Antagonista degno di questo nome». Ma le cronache attuali parlano di un mondo calcistico in cui ciò che conta son solo i danée: «Noi di Vicenza il calcio-scommesse lo conosciamo bene. La nostra squadra non venne promossa in A nel 1986 proprio per questo – rievoca Ferrio –. Per me fu qualcosa di intollerabile, soprattutto perché tifavo e tifo per quelle piccole squadre (vedi il Chievo) che se la giocano alla pari con le grandi». Più filosoficamente, sostiene Ferrio, «non esiste una grande vittoria senza la partecipazione di chi perde. Prendiamo Italia-Germania 4 a 3, a Città del Messico 1970: alla fine è stato il caso ad assegnare la vittoria agli azzurri. Ma ciò che ha reso celeberrima quella partita è stata l’atmosfera, la tecnica, la tattica messa in campo da entrambe le squadre». L’attuale deregulation è colpa anche della mutazione che il gioco del pallone ha subìto, secondo Ferrio, negli ultimi anni: «Io sono figlio della cultura del calcio di strada, degli oratori, dei campi di fortuna»; un mondo simboleggiato nel romanzo nei quattro maglioni gettati nella piazza di Vicenza per costruire le porte della partita tra l’Inghilterra berica e operaia e un gruppo di turisti olandesi, gara immortalata da Ferrio con sagacia da cronista. E per disegnare la traversa si faceva saltare il portiere... Bei tempi andati. «Oggi il calcio di strada non esiste più. E non è stato sostituito da qualcos’altro. Semplicemente, è sparito. E le conseguenze le vedo con i miei figli: non si mescolano più con gli altri, come una volta, quando ricchi e poveri, bravi e brocchi erano tutt’uno».
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