venerdì 12 maggio 2023
Il Guggenheim dedica un’antologica alla pittrice inglese con un curriculum vertiginoso. È nata a Londra, ma ha radici nel Ghana
Lynette Yiadom-Boakye, “Divine Repose”, 2021 (particolare)

Lynette Yiadom-Boakye, “Divine Repose”, 2021 (particolare) - © Lynette Yiadom-Boakye, Bilbao 202

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In Italia abbiamo ormai sempre più atleti che provengono da famiglie immigrate (per quanto in proporzione infima rispetto all’estero) si contano quasi sulle dita i “nuovi italiani” tra gli artisti. Questo non è solo un segnale sociale ma è anche indice della fatica che può avere uno sguardo abituato a pensare una cultura in termini identitari definiti nei confronti di artisti che non corrispondono più all’idea ottocentesca di Stato nazione. In poche parole, si stanno trasformando (o non esistono più) le identità etnico- culturali storiche di un territorio. E questo, in verità, non è un problema. Questa premessa sembra utile per addentrarci nei quesiti che pone una figura come Lynette Yiadom-Boakye, della quale è in corso una mostra al Guggenheim di Bilbao. Tra le artiste più in vista della pittura contemporanea, ha un curriculum vertiginoso, con personali alla Tate Britain e alla Serpentine Gallery di Londra, al New Museum of Contemporary Art di New York, al Moderna Museet di Stoccolma, la vittoria di premi prestigiosi e la presenza nelle principali collezioni internazionali. Lynette è di origini africane, per la precisione ghanesi, ed è nata a Londra nel 1977.

Se fosse un’artista statunitense non avremmo problemi a porla automaticamente tra i frutti del melting pot americano. Ma lei è europea, una dimensione che istintivamente leggiamo in modo molto preciso. Così come è istintivo pensare che se un artista è di origine extracontinentale deve parlare delle sue origini e della sua identità. In effetti suoi i dipinti rappresentano esclusivamente uomini e donne di colore, ma corrispondono molto poco a ciò che immaginiamo essere “africano”. Sono figure riprese da posizione molto ravvicinata in interni e più raramente in esterni sempre però privi di connotazione, e collocate in una modernità atemporale. Sono sdraiate, leggono, sembrano immerse nei pensieri. Spesso ci guardano, non di rado danzano nelle posizioni del balletto classico. Il fatto è che Lynette Yiadom-Boakye è un’artista londinese, per essere più specifici della “South London”. Ossia nata, cresciuta e educata in tutto quello che può significare la Londra degli ultimi quarant’anni, una città dove i bianchi inglesi hanno cessato di essere la maggioranza della popolazione di una metropoli multietnica il cui sindaco dal 2016 è il musulmano Sadiq Aman Khan, nato a Londra da genitori pachistani (mentre il primo ministro britannico è Rishi Sunak, nato a Southampton da genitori indù emigrati dall’Africa orientale). Lynette Yiadom-Boakye è un fenomeno di quella che Derek Walcott chiama « the tidal advance of the metropolitan language » , la marea montante del linguaggio metropolitano.

Come dobbiamo guardare questi quadri? Come si dovrebbe guardare ogni dipinto: per la sua natura interna. Ricerca di significato e mito dell’impegno sono chiavi limitanti. È un problema diffuso. Come scrive in catalogo Kodwo Eshun, scrittore e giornalista britannico di origini ghanesi, «nelle interviste, Yiadom-Boakye si sofferma spesso a spiegare il suo lavoro concentrandosi sulla pittura in sé, sulle esigenze formali che la pittura, in quanto tale, deve soddisfare, sulle richieste formali che la pittura, come materia dotata di forza, tendenze e disposizioni proprie, fa al suo dipingere. I suoi interlocutori, al contrario, tendono a preoccuparsi di questioni riguardanti il realismo, la figurazione, la nerezza (blackness), la figurazione nera, la figurazione del corpo nero dopo la cosiddetta “resa dei conti razziale”, generata dopo le proteste globali in seguito all’omicidio di George Floyd». Lynette Yiadom-Boakye dipinge neri anche per compensare la loro assenza in una storia dell’arte “caucasica”, ma forse più che per rivendicazioni politiche lo fa con la stessa naturalezza e famigliarità con cui un bianco dipingerebbe un bianco.

Lynette Yiadom-Boakye, “Goshawk”, 2020

Lynette Yiadom-Boakye, “Goshawk”, 2020 - © Lynette Yiadom-Boakye, Bilbao 202

«Non si tratta tanto di evitare queste indagini – prosegue Eshun – quanto di regolare la scala in cui vengono poste. Si tratta di avvicinarsi a queste domande dall’interno di un mondo di cui [Yiadom-Boakye] comanda le forze, di cui esercita il potere. Si tratta di incontrare un pittore sul campo della pittura. Si tratta di scendere al livello al quale è più intimo. Un livello in cui pittura entra nella dimensione del trans-storico, in cui ogni pitte tore vive e su cui si sostiene».

Sono diversi i problemi pittorici (squisitamente “europei”) che si pone Lynette Yiadom-Boakye. C’è senza dubbio quello del museo, che inserisce il lavoro dell’artista in una tradizione precisa: è evidente come i suoi riferimenti siano Manet, Degas, Picasso (ma c’è da chiedersi se ancora più in profondità non agisca lo spiazzante Gilles di Watteau) e, nei lavori più recenti, Gauguin. C’è quindi un gioco tra percezione indotta dai meccanismi rappresentativi e realtà. I dipinti si configurano come ritratti, ma nessuno di essi lo è. Le composizioni sono frutto della collezione ritagli, dettagli sparsi e spunti visivi, del tutto privi da legami famigliari o amicali, che mettono in moto narrazioni latenti mai pienamente decifrabili, affidate all’osservatore. I titoli indirizzano, non senza echi simbolisti, la lettura di questi personaggi immaginari.

Il titolo per Lynette Yiadom-Boakye è il punto di contatto tra la sfera pittorica e quella, da lei praticata in pari misura, letteraria: «Scrivo su ciò che non posso dipingere e dipingo ciò che non posso scrivere», spiega. Realismo e mistero, sospensione e presenza, arte e poesia: l’impossibilità di sciogliere l’opera in alternative binarie è strutturale nel lavoro di Yiadom-Boakye fin dentro le scelte linguistiche e pittoriche.

Il titolo della mostra in questo senso è significativo: No Twilight Too Mighty. Una traduzione italiana (“Nessun crepuscolo troppo forte”) può suggerire l’attrito ossimorico di debolezza e potenza, ma sfugge la ricchezza semantica di twilight, termine che indica il confine tra giorno e notte, luce e buio, ma in senso figurato anche una conoscenza imperfetta e imprecisa. È l’ora in cui alla vista si richiede uno sforzo maggiore perché il buio divora lentamente le forme e la luce arretra. È esattamente la qualità difficilissima della pittura di Lynette Yiadom-Boakye (poco visibile in fotografia), che indaga non la luce che rivela ma la luce che vela e nasconde la forma. Anche le cromie sgargianti che punteggiano e a volte sostituiscono i toni prevalenti delle terre sono assorbite in una sorta di notte americana. Dipingere l’ombra e un colore che assorbe la luce: aveva ragione Okwui Enzor quando spostava l’attenzione dal dispositivo rappresentativo (la ritrattistica) per sottolineare come «il suo lavoro riguarda la pittura come discorso in cui vengono plasmate visibilità e invisibilità».

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