sabato 7 maggio 2016
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Il nome di William James (1842-1910) è legato soprattutto alla genesi del 'pragmatismo', il primo filone filosofico nato negli Stati Uniti. Nel corso della propria riflessione James ebbe però modo anche di riflettere sulle cause della guerra e sugli strumenti per limitarla. Leggere i testi raccolti nel volume curato da Antonello La Vergata, L’equivalente morale della guerra e altri scritti (Ets, p. 180, euro 12.00), non è però interessante tanto per le soluzioni che James suggeriva, quanto per il modo con cui egli si accostava all’eterno problema della guerra. Evoluzionista convinto, il filosofo aveva inizialmente adottato una concezione non molto lontana da quella proposta da Herbert Spencer alcuni anni prima. Anche per James «l’istinto di battersi» era infatti radicato nella natura umana e nel suo passato primordiale, ma era lecito confidare che il processo di civilizzazione e l’ascesa della società industriale avrebbero reso sempre più obsoleti e inutili gli istinti aggressivi. Quando iniziò la guerra fra Stati Uniti e Spagna, nel 1898, il filosofo dovette però prendere atto di quanto l’opinione pubblica americana fosse ancora sensibile al fascino della battaglia. Per questo si impegnò in una campagna contro l’intervento armato nelle Filippine, dove, dopo la sconfitta della Spagna, era stata dichiarata la repubblica (contro il volere degli Stati Uniti). E divenne anche una delle colonne portanti della Lega antiimperialista americana, che si opponeva alla politica espansionista del presidente William McKinley. Il principale contributo della riflessione pacifista di James risale però al 1910. In un discorso pronunciato poche settimane prima della sua improvvisa scomparsa, il filosofo propose infatti di introdurre alcuni strumenti capaci di “canalizzare” gli istinti bellicosi e di indirizzarli verso attività pacifiche. Per esempio lo sport poteva mantenere viva la “passione per la competizione”, senza giungere allo scontro violento. E l’istituzione di una coscrizione obbligatoria per obiettivi sociali (come la costruzione di strade, gallerie e grattacieli) avrebbe avuto l’effetto di conservare «nel pieno di una società pacifica le virtù virili». Rilette oggi, le soluzioni avanzate da James – come osserva La Vergata – devono apparire fatalmente ingenue. Ma rileggere quelle vecchie riflessioni è forse utile per premunirsi criticamente contro quei tentativi che si propongono di spiegare la violenza, la guerra e il terrorismo ricorrendo a determinanti “biologiche”. Non tanto perché non esista qualcosa di simile a ciò che James chiamava “l’istinto di battersi”, quanto perché l’essere umano – come scrisse Ernst Cassirer – non vive in un universo naturale, ma in “universo simbolico”. Perché persino la violenza all’apparenza più brutale, che si manifesta nella guerra e nel terrorismo, può essere spiegata solo tenendo conto dei molteplici livelli di mediazione culturale, politica e istituzionale, e dunque penetrando nell’“aggrovigliata trama” dell’esperienza umana. © RIPRODUZIONE RISERVATA Escono alcuni scritti di William James, il padre del “pragmatismo”, sulla guerra. Proponeva di “canalizzare” gli istinti violenti su attività pacifiche
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