venerdì 21 ottobre 2016
Geert Mak sull'Europa: «L'Unione astratta è carente di speranza»
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Geert Mak se la ricorda bene, l’Europa del 1999. «C’era un ottimismo che rasentava l’euforia – dice –. Purtroppo non era un buon segno». Settant’anni da compiere ai primi di dicembre, Mak è uno degli autori più importanti della letteratura olandese contemporanea. Scrive libri di difficile definizione, sospesi tra il saggio e il racconto. Il più recente, tradotto in Germania in occasione della Buchmesse, si intitola Le molte vite di Jan Six ed è la biografia, più ragionata che romanzata, di un nobile che ebbe la ventura di essere amico di Rembrandt.Il lettore italiano conosce Mak per i suoi pamphlet (Cosa succede se crolla l’Europa?, uscito da Castelvecchi nel 2012), per una bellissima storia di Amsterdam (Un’idea di libertà, Bruno Mondadori, 2012) e per i monumentali resoconti di viaggio: le oltre seicento pagine di In America ( Ponte alle Grazie, 2015), le mille abbondanti di In Europa (Fazi, 2006), nate dalle sue scorribande nel Vecchio Continente alla vigilia del fatidico 2000. «L’emozione prodotta dalla caduta del Muro di Berlino era ancora nell’aria – racconta – , si respirava un clima di entusiasmo al quale non era facile sottrarsi».E questo non andava bene?«L’entusiasmo non basta per governare situazioni complesse come quelle che si stavano mettendo in moto. L’Unione Europea era ormai considerata un fatto compiuto, eppure nessuno si preoccupava di elaborare una politica comune su temi cruciali quali l’immigrazione e l’economia. Ci si illudeva che gli accordi di Schengen da una parte e la moneta unica dall’altra sarebbero stati sufficienti a risolvere il problema. Non era così».Che cosa è mancato?«Il realismo. O, se preferisce, il confronto con la realtà. Ci si è accontentati di formulare princìpi altisonanti, che però avrebbero avuto bisogno di essere tradotti in pratica attraverso una serie di decisioni concrete. La stessa difesa della democrazia è stata piegata alle ragioni dell’intervento militare in Afghanistan e Iraq, con le conseguenze che conosciamo».Si riferisce alla situazione in Medio Oriente?«Anche a quella in Europa, in effetti. All’euforia è subentrata la depressione e oggi il sentimento dominante è la paura, che sta portando alla rinascita impetuosa dei nazionalismi. Così come è stata formulata, la fratellanza tra i popoli si è rivelata un valore astratto, incapace di reggere l’urto con la realtà. Pensi al dilagare della disoccupazione giovanile, alla tragedia degli immigrati, a tutti i drammi non risolti che finiscono per contaminare il senso morale degli europei».Vale anche per gli Stati Uniti?«Lì il quadro è in parte differenze. Negli Stati Uniti è molto diffusa la convinzione, molto simile a una fede religiosa, nell’eccezionalità del destino nazionale. È il famoso eccezionalismo americano, che nella fase attuale si sta contaminando con la retorica populista agitata da Donald Trump. Vede, il mio libro sugli Usa prende spunto da un viaggio compiuto da John Steinbeck nel 1960. A mezzo secolo di distanza, quando mi sono messo sulle sue orme, le persone che ho incontrato non facevano altro che ripetermi lo stesso concetto. Allora eravamo ancora più poveri di adesso, dicevano, ma eravamo persuasi che i nostri figli avrebbero una vita migliore della nostra. Oggi questa speranza è svanita, al suo posto è subentrata la paura».Quindi è la speranza che manca?«Sì, ma mancano anche personalità che sappiano produrre un cambiamento. In Europa, che piaccia o no, solo Angela Merkel ha saputo prendere inziative coraggiose. A livello globale, poi, papa Francesco rappresenta un’eccezione straordinaria e sorprendente. Sono passati due anni dal suo discorso al Parlamento Europeo, ma quell’analisi non ha perso nulla in termini di lucidità e attualità. E guardi che non ne faccio una questione religiosa».Lei è credente?«Sono figlio di un pastore calvinista, la fede ha avuto un ruolo importante nella mia vita. Non posso più considerarmi credente in senso tradizionale, ma resto persuaso del fatto che la realtà non si esaurisca in quello che vediamo. La crisi del mondo di oggi, per me, è anzitutto una crisi spirituale».
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