mercoledì 24 agosto 2011
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«Tu sai cosa succede», disse lei improvvisamente rivolta alle dita di lui che volavano sulla tastiera del computer a scrivere la nota di spesa del loro ultimo viaggio. «Succede da dodici mesi e sei giorni, tutti i giorni. Dal momento in cui sei entrato in agenzia e hai chiesto con la tua bella voce se mi serviva qualcuno che parlasse il tedesco e il cinese. Fissavi il portapenne sul tavolo, poi hai spostato lo sguardo sulla fotografia della Grande Muraglia alle mie spalle e così ho visto i tuoi occhi neri, che non mi hanno guardato, non mi guardano mai. E ti ho amato. Da allora, tutto in un momento la mente e il corpo occupati. E da allora aprire gli occhi tutte le mattine sapendo che ci sei, che entrerai dalla porta dell’ufficio e mi sarai vicino tutto il giorno e mi parlerai e ti potrò sfiorare con ogni motivo, con ogni scusa. E la sera andare a casa sapendo di trovare il tuo nome nel mittente delle mail. Mail di lavoro, ma con il tuo nome. E inventare viaggi, per partire insieme, insieme scegliere dove dormire, cosa mangiare e cosa raccontare e poi insieme scrivere. E starti vicino in aereo. E sperare ogni momento, ogni momento, che le tue mani eleganti lascino i fogli, posino la valigia, rinuncino ad afferrare il sale a tavola e si appoggino sulle mie per una carezza, mi prendano il viso, perché tu possa guardarmi negli occhi e leggere quanto è non comune questo amore, questo brivido che da un anno culla e scuote e fa tremare la mia vita». Erano seduti vicini, le sedie che si toccavano, lei dettava le cifre, il braccio appoggiato sul tavolo a sostenere la testa. Era stremata e gli occhi si eran chiusi tante volte sul cumulo irregolare e instabile di ricevute che sfogliava e metteva da parte dopo la registrazione. Ricevute, fogliettini, biglietti di treni, autobus, traghetti, pagine di moleskine strappati per farne promemoria. La solita accozzaglia di ogni fine viaggio, colorata, sbiadita di sole, un po’ unta di cibi improvvisati. Ogni tanto i granelli di sabbia raccolti in qualche spiaggia cadevano sulla superficie del tavolo. E certo non avrebbe saputo dire da dove fossero arrivate, proprio in quel momento, le sue parole. Nel mezzo del lavoro e della notte, esattamente mentre il bizzarro orologio a parete della cucina di lui lanciava nell’aria calda e quasi solida per l’afa d’agosto il grido dell’allocco. La prima volta gli ospiti facevano un salto di spavento a sentire i versi degli uccelli che scandivano le ore: il merlo alle otto, la civetta a mezzanotte. L’allocco suonava le tre. Lei ci era abituata: tante notti, dopo ogni viaggio di lavoro, a riportare le spese per l’agenzia. Un’abitudine. Quasi una cosa intima. Era stato lui la prima volta a proporre di lavorare a casa sua. Il viaggio era stato un’avventura. Novanta ore di ritardo solo sul volo di ritorno: un vulcano aveva respirato appena un po’ più forte e gli aerei erano rimasti a terra. E lui aveva detto: «Vieni da me stanotte, così ti risparmi un’ora di taxi per casa tua». E lei era rimasta. Come poi tutte le altre volte, di ritorno dai viaggi. Ma non era successo niente. Come poi tutte le altre volte. Nemmeno durante i viaggi succedeva niente. Sedici nell’ultimo anno. A verificare alberghi, ristoranti, contatti locali. Un’agenzia turistica deve conoscere ogni calle, ogni spiaggia, sentiero, piazza, delle mete che propone, e ogni mattonella, imposta, tenda o tappeto degli alberghi e ristoranti in cui manda i clienti, diceva lei quando annunciava a tutti il successivo tour. E si portava sempre lui. Ormai in agenzia pensavano quel che pensavano. E invece no. Quel gesto di scompaginare le carte impilate sul tavolo e quel fiume di parole, da dove erano venuti? Se lo chiedeva, ormai sveglia, nel silenzio arrivato dopo l’ultima nota dell’allocco dipinto sull’orologio a muro. Mentre guardava le splendide dita di lui bloccate nell’aria come da un incantesimo, sopra una cifra non ancora scritta. Quanto lungo il silenzio che aspetta una risposta. «Non ci sarà mai una notte nella nostra storia», disse lui con una paura gelata sospesa nella voce. Senza guardarla, come sempre. «Nessuna notte?» ripeté lei scossa da un trasalire impercettibile. «Tutte le mattine del mondo. Tutti i giorni del mondo. Tutte le avventure. Ma non ci saranno notti», disse lui e ancora come sempre la sua voce era una carezza, un atto d’amore trattenuto. Senza distanza. Come si può? Lui era lì accanto a lei, la pelle scura, abbronzata dal sole dei tanti viaggi. Bellissimo. Bellissimo. «Da sempre è così», disse ancora lui. «E sarà per sempre. Non c’è miracolo possibile». Era ormai un sussurro incerto la sua voce. Ma chiara nel silenzio della notte lei la sentì. Per sempre. E quell’intendersi senza dire? Le parole con cui si erano raccontati l’un l’altro lo schianto chiassoso dei colori tropicali, gli azzurri estremi dalla bellezza smisurata delle nevi del Ruwenzori, i verdi cupi e bagnati dello Schwarzwald e che avevano scritto in taccuini, a righe lei, senza righe lui, e trasformati in brochure poetiche, articoli a quattro mani, una voce nuova, due voci che diventavano una, firmati con un acronimo che solo loro conoscevano, e qualcuno dell’agenzia sospettava, e lo stupore di essere già uno, nella scrittura, nel sentire, nel vedere, nel vivere ogni minuto di quei viaggi? Nel desiderio, certo, nel desiderio che altro avvenisse, ma intanto già molto, moltissimo era avvenuto, una perfezione era nata da loro. Quel ricordo le ghiacciò i pensieri sulle mani di lui sospese sulla tastiera. Tutte quelle lettere, quelle parole possibili. E non ci sarebbero mai state quelle capaci di scrivere la loro passione? Passione? La passione di chi? Sua, solo sua. E lui? «Mi ami?», si sentì chiedere. «Non… dovrei… non avrei dovuto…. Tu non avresti dovuto. Sì. Sì, ti amo», lo sentì rispondere. Bandire il corpo. Guardava le mani che aveva immaginato. Essere la signora dei giorni. Osare un’avventura senza mappe. Pionieri di un amore dalle strade non tracciate. Certo non da sola. Non da sola. La spavalda irrealtà di quel che capitava la stordiva. Eppure continuava a immaginare quel che aveva immaginato ogni momento di quei mesi, e ci riusciva ancora. Sfrontata la vita che ti si presenta all’improvviso davanti artigliata di imperfezione. Sarebbe diventata cattiva di una cattiveria inevitabile? Era tutto fermo intorno a loro. Nessun suono dalla strada lontana, dal parco intorno alla casa. Di che cosa hai paura? Nemmeno il precipitare della morte fa paura se si è insieme, se la mano stringe quella di chi ci ama. Il mondo fuori, la notte piena di passioni si trasfigurava appena un po’ in un annuncio di giorno. Svelamento in cui si inabissava il futuro sognato, immaginato. Il gufo reale dell’orologio gridò il suono delle cinque. «Andiamo», disse lei alzandosi e prendendogli la mano. «Dove?», chiese lui. «Fuori, ad aspettare l’alba», rispose lei. «L’alba», ripeté lui. «Tutte le mattine del mondo è tanto. Davvero tanto», disse lei spalancando la porta. Poi si girò. Lui la guardava e le sorrideva. Anche lei gli sorrise. (Published by arrangement with Marco Vigevani Agenzia Letteraria)
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