mercoledì 14 gennaio 2009
Ho vinto due Olimpiadi, ma a 47 anni mi ritrovo in difficoltà, senza un mestiere né una pensione perché per tutta la vita mi sono dedicato a uno sport povero. Cosa vorrei? Non essere umiliato... Il suo soprannome era Pollicino: «Avrei voluto entrare in Polizia per avere un futuro sicuro ma venni scartato per 4 centimetri». Ora spera nella nomina a tecnico federale per Londra 2012 «Ho scoperto e lanciato Andrea Minguzzi che ha trionfato ai Giochi di Pechino, ma i meriti li hanno presi altri... All’estero c’è più rispetto per chi onora la sua nazione con lo sport»
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Proprio come “Pollicino”, ha seminato tanto Vincenzo Maenza. Briciole d’oro e d’argento lasciate sulla materassi­na della lotta greco-romana (48 kg) dove è stato un piccolo grande re. Mise la corona olimpica a Los An­geles nell’84, a Seul ’88 e se la tolse solo a Barcellona ’92: si congedò dai Giochi, salendo sul secondo gradino del podio. A 34 anni l’addio alle gare e da lì in poi per “Pollicino” Maenza sono passati tredici lunghi inverni alla ricerca affannosa di quelle briciole di gloria. Non le ha trovate più, co­perte dalla neve dell’indifferenza che troppo spesso scende inesora­bile sui piccoli eroi dimenticati de­gli “sport poveri”. «A 47 anni mi ri­trovo senza un mestiere, perché più della metà della mia vita mi so­no dedicato al 100% esclusivamen­te alla mia disciplina. Quando ti al­leni 8 ore tutti i santi giorni, con u­na diaria di appena 40-50 mila lire, a fine carriera con una moglie e due figli da mantenere o fai mira­coli per mandare avanti la baracca o ti ritrovi nella miseria...». Dopo una vita di lotte si aspettava qualcosa di più dai governanti del Coni, per sé e per tutti quei cam­pioni che hanno sacrificato i mi­gliori anni della loro vita al servizio dello sport italiano. «Nel Palazzo, al Coni, se ti presenti ti accolgono con grandi sorrisi e pacche sulle spalle. “Guarda chi si vede il mitico “Pollicino”, il campione”, ti dicono. Poi quando capiscono che sei lì per far valere i tuoi diritti ti salutano in fretta e ti fanno rassicuranti: “Ti fa­remo sapere presto, stai tranquillo siamo con te, non ti abbandonia­mo...”. Scene viste e riviste, ma nes­suno ha mai mosso un dito per ve­nire incontro a quelle che non so­no solo le mie richieste, ma quelle di un’intera categoria di atleti che con grandi sacrifici hanno pratica­to e ottenuto risultati importanti, ritrovandosi alla fine senza neppu­re un euro di pensione. Tutto que­sto è diventato inaccettabile». È il grido accorato di un piccolo grande uomo che ha continuato a dare tanto alla lotta greco-romana e un po’ dell’oro di Andrea Min­guzzi, conquistato a Pechino 2008, è anche suo. «Dagli 11 ai 18 anni Minguzzi si è allenato con me e l’ho portato alla vittoria dei cam­pionati italiani juniores e senior. L’ho messo nella giusta direzione, poi come sempre i meriti se li prendono gli altri...». Ma Minguzzi ha sempre riconosciuto a Maenza il rango di suo “maestro”. «Andrea è un gran bravo ra­gazzo e per sua fortuna ha le spalle coperte perché può alle­narsi serena­mente nella squadra delle Fiamme Oro, con uno stipen­dio sicuro a fine mese da poliziotto... A me non die­dero quella possibilità. Avrei tanto voluto entrare in Polizia, ma venni scartato alle visite per 4 centimetri: all’epoca era obbligatoria la statura minima di 1 metro e 65 per essere arruolati. A quel punto ho sperato che mi si aprissero le porte della Banca Popolare di Faenza. Per tre Olimpiadi insieme al tricolore ho sbandierato ovunque anche il mar­chio dell’istituto bancario della mia città perché i dirigenti di allora mi fecero una promessa: “A fine carriera basta che ci mandi una bella letterina e il posto sarà tuo...”. Io quella lettera l’ho spedita 13 an­ni fa, non ho mai ricevuto risposta. E non l’aspetto neanche più. Sono cose che fanno male, sentirsi presi in giro dopo aver sempre avuto sia nella vita che nello sport il massi­mo rispetto per il prossimo». Non chiede la luna Maenza, ma quel minimo di pensione che viene garantito a tutti quegli atleti degli “sport ricchi”, a cominciare dal calcio. «Giochia­mo a calcio an­che noi della Ni­co (Nazionale i­taliana calcio o­limpionici), l’as­sociazione che ho fondato nel 2002. Abbiamo cominciato a farlo con tanti ex campioni (Men­nea, Masala, Guarducci) per racco­gliere fondi che servono a costruire pozzi d’acqua alle popolazioni del terzo mondo e quelli necessari per la ricerca sull’Epn (Emoglobinuria parossistica notturna), una malat­tia rara che ha colpito il nostro a­mico pugile Maurizio Stecca (oro a Los Angeles e campione del mon­do nel 1989 dei pesi piuma). Quella di Maurizio e di suo fratello Loris Stecca - lo scorso anno è arrivato a minacciare il suicidio - è una delle tante storie drammatiche di grandi sportivi del passato che sono stati abbandonati. Non chiediamo l’ele­mosina, non vogliamo essere “u­miliati” con la Bacchelli, pretendia­mo solo rispetto, perché trovo ol­traggioso che calciatori che hanno guadagnato miliardi, appena smet­tono si ritrovano subito su un piat­to d’argento una pensione da 1.800 euro. Ma un Del Piero o un Totti cosa se ne fanno di quei soldi? Per ex atleti come noi invece sarebbero molto utili. È il minimo che il governo dello sport possa dare in favore di chi ha vinto tutto e pagato fino al­l’ultimo centesi­mo di tasse per le medaglie con­quistate... E sa­rebbe giusto che le pagassero an­che i nostri o­limpionici di Pechino, perché è ora di finirla in questo Paese con la so­lita politica dei due pesi e delle due misure». Una delle tante tradizioni negative, e tutta italica. «All’estero c’è molto più rispetto per chi ha onorato la sua nazione attraverso lo sport. Basta che un a­tleta abbia ottenuto dei risultati che la sua Federazione automati­camente gli riconosce un vitalizio. Il mio avversario alla finale di Los Angeles, il tedesco Markus Scherer, ha vinto molto meno di me, eppu­re l’ho incontrato e mi ha detto che il ministero dello sport della Ger­mania lo ha sistemato adeguata­mente. Io non spero di arricchirmi con un eventuale sussidio previ­denziale, chiedo soltanto per me e tutti gli altri ex campioni di poter continuare a vivere e di poter fare una vecchiaia dignitosa». Una boccata d’ossigeno intanto per Maenza potrebbe arrivare da una chiamata della Federazione per la nomina a ct azzurro in vi­sta delle prossi­me Olimpiadi inglesi. «Da due mesi non lavoro. Dopo Pechino mi è scaduto l’incarico di os­servatore. Non ho una palestra mia, non me la sono mai potuta permettere, così vado ad insegnare la lotta dove mi chiamano... So che la nomina a se­lezionatore della Nazionale per Londra 2012 è imminente. Per me sarebbe il coronamento di un so­gno: lavorare in un ruolo che pen­so di meritare per tutto quello che ho dato all’Italia. Se mi chiamasse­ro, forse sarebbe il segno che qual­cosa sta finalmente cambiando...». Vincenzo Maenza (a destra), in azione ai Giochi di Los Angeles nel 1984 dove conquistò il primo oro nella lotta greco-romana
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