giovedì 10 settembre 2015
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Se siete dei disinnamorati di questo “calcio malato” - di corruzione, di assenza di valori, di bulimia televisiva e di giornalismo tifoso - basta ascoltare i racconti di cuoio dalla voce melodiosa, educata, di Giacomo Losi, che d’incanto si ritorna alla dimensione più umana e più vera di questo sport. Oggi compie 80 anni il primo mitico Core de Roma (titolo personale guadagnato sul campo e anche della biografia - Minerva Edizioni - scritta da Francesco Goccia e Valentina Cervelloni). La bandiera Losi, quindici anni in giallorosso, dal 1954 al ’69. E con 386 gare disputate, è il secondo giocatore per presenze nella storia dell’As Roma, subito dietro a Francesco Totti. «Dispiaciuto? Macché lui è il più grande di tutti: se Francesco avesse giocato nella mia Roma avrei vinto molto di più. A Totti e a De Rossi che presto mi supererà (è a 366 presenze) - dice - auguro solo il meglio, perché sono due ragazzi che hanno il cuore grande, in campo e fuori».Ma mai grande quanto quello del Giacomo da Soncino («Provincia di Cremona: il paese più bello del mondo. La mia lingua, anche dopo 60 anni romani, rimane il soncinese»), che nella capitale ci arrivò dopo aver sconfitto la fame e la paura della guerra. «Mio padre tornò pelle e ossa dalla Cecoslovacchia, lo avevano deportato in un campo di concentramento nazista e di quella storia in casa non ne volle mai parlare... A dieci anni all’alba rubavo il pane e facevo la “staffetta” per i partigiani, al pomeriggio giocavo con la Virtus, la squadretta dell’oratorio di San Paolo che avevamo messo in piedi con il parroco, don Giovanni. I calzoncini della divisa - maglie nerazzurre - li avevo cuciti a mano io, perché lavoravo da apprendista sarto dallo zio Vittorio e poi dalla zia Rosetta». Sarebbe diventato un buon sarto quel ragazzino che, quando non correva dietro a un pallone, sprintava con la bici per i campi e le strade bianche della Bassa, gridando al traguardo della Rocca Sforzesca: «Sono Fausto Coppi! Il mio grande idolo, assieme ai ragazzi del Grande Torino. Il giorno dello schianto di Superga avevo 14 anni, credo sia una delle poche volte che ho pianto per il calcio». Il destino vestito di nero, come un arbitro, invece l’anno dopo gli sorrise. Quel direttore di gara intuì che il ragazzino della Soncinese - prima categoria - dal piede un po’ ruvido («giocavo attaccante, ma tecnicamente ero un disastro»), ma dalla corsa generosa e sfrenata come un Dorando Pietri, poteva essere invece un buon investimento per la Cremonese (serie D).«Comprarono il mio cartellino per 500mila lire, una bella cifra per l’epoca. Il mio vero “maestro”, il campione del mondo - nel 1934 e nel ’38 - Giovannin Ferrari, a 16 anni mi prese in prestito nei ragazzi dell’Inter per il torneo giovanile di Sanremo -il Viareggio di allora - : segno il gol decisivo su rigore agli svizzeri del Servette e vinciamo la Coppa». Ma all’Inter non lo prendono, e l’estate del ’54 Giacomino non ci pensa su e accetta la Roma. «Appena arrivato, alloggiavo in una pensione in via Quintino Sella. Alla sera uscivamo in via Veneto e avvertivi i primi lampi della dolce vita felliniana. Per me, arrivato dalla nebbia di provincia, era come stare dentro a un film: tutte quelle luci dei locali aperti fino a notte fonda, i paparazzi e le attricette di Cinecittà che, sapendoti calciatore della Roma, ti corteggiavano. Ma proprio nella via dove vivevo, tac, colpo di fulmine». Era la sedicenne Luciana Renzi, «nessuna parentela con il Premier - sorride - . Stò con Luciana da sempre, siamo vicini alle nozze d’Oro. Mia moglie è lo “scudetto” della mia vita, cucito qui, sul cuore... Abbiamo affrontato tutto assieme, anche la perdita di nostra figlia Daniela, se ne è andata cinque anni fa, aveva 46 anni...». Si ferma per un attimo Losi, questa è una storia che fa davvero male al cuore. «Per fortuna c’è ancora l’altro figlio, Roberto, ci sono i nipoti. E poi c’è tutta la gente di questa città stupenda di Roma di cui spesso, a torto, si parla troppo male. Ma io la amo e sono da sempre riamato, perfino dai laziali». Rispetto per il vecchio capitano giallorosso che in campo dava anche il sangue.«Mi chiamavano “Palletta” perché se andavo in elevazione, dall’ “alto” dei miei 169 centimetri, quando tornavo a terra sembrava che rimbalzassi come una palla. Eppure, ho fermato giganti come Charles, giocando d’anticipo ho stoppato anche dei giocolieri geniali come Sivori e Altafini. Mi hanno fatto male solo in due, il genio di Garrincha che valeva Pelè: con quella gamba più corta fintava e ti lasciava basito sul posto... E poi Brighenti, con una gomitata in faccia mi spaccò l’arcata sopraccigliare: 12 punti, ma di sutura!». Fu per quello spirito stoico e la resistenza anche al dolore che divenne “er core de Roma”. «I giornali titolarono così, credo fosse il ’61. Contro la Samp stavamo perdendo 2-1 mi procuro uno strappo all’inguine, ma rimango in campo - all’epoca non esistevano le sostituzioni - . Manfredini detto “Piedone” (colpa di una foto scattata che glie lo ingigantiva, in realtà avrà avuto un 41) segna il gol del 2-2. Nel finale, calcio d’angolo per noi: zoppicando mi porto in area, salto di testa e segno la rete della vittoria. Era il mio primo gol con la maglia della Roma». Due gol in quindici anni di onorata carriera. Unicità del prode Giacomo che nelle 386 battaglie ha rimediato una sola ammonizione, «ma non sono mai stato espulso - sottolinea con fierezza - . Oggi credo sia impossibile, con tutta quell’esasperazione che c’è in campo e fuori...». Eppure Losi continua ad amare il calcio e a considerare dei «nipoti» tutti i giallorossi di Rudi Garcia. «Voglio un gran bene a Florenzi, ma anche a quelli delle altre squadre, perché è un gran brutto periodo per i nostri giovani. Questo mondo è strano, a volte crudele e non è facile difendersi dai problemi e dai tanti pericoli che ci sono».Parola di uno che ha sempre saputo come difendersi: dagli avversari, dai detrattori, dagli incantatori e anche dal “Mago”. «Helenio Herrera soffriva la mia popolarità e mi lasciava fuori... Ero rimasto a Roma anche quella domenica (16 marzo 1969, ndr) che a Cagliari morì il povero Giuliano Taccola... - un nodo in gola, si commuove ancora - . È che ogni volta che ripenso a Giuliano ci sto male. Rivedo quella sera in cui venni incaricato dalla società di dare la tragica notizia a sua moglie che lo aspettava a casa con due figli piccoli. È morto per un’iniezione... Il doping? Qualcuno della mia generazione forse c’ha rimesso la pelle. Herrera portò con sé un mezzo stregone di massaggiatore, tale Wanono che prima della partita ci dava delle pillole colorate. Le ho sempre sputate, a me per correre bastava un piatto di pasta e il salame di Soncino». La dieta del maratoneta dell’Olimpico, il pasto nudo e crudo del cuore giallorosso che vestì l’azzurro 11 volte, «ma dopo il Cile non venni più convocato». Il pupillo degli allenatori di cuore, come lui: «Rocco è stato un padre, “Fuffo” Bernardini la persona più colta e intelligente che ha espresso il nostro mondo del pallone». Con le panchine del professionismo, Losi ha chiuso trent’anni fa (alla Juve Stabia), ma continua a seguire i ragazzi della scuola calcio Nuova Valle Aurelia e vanta un record mondiale: «Da più di quarant’anni faccio il ct - sorride - ... Della Nazionale attori: ieri allenavo Pasolini e Ninetto Davoli, oggi “Montalbano” Zingaretti e Scamarcio». Perché in fondo la sua vita è un gran bel film, lungo ottant’anni: «È vero, ho vinto poco con la Roma (due coppa Italia), ma in compenso ho ricevuto tanto amore dai tifosi. Per loro soprattutto, vorrei che Totti e compagni quest’anno vincessero lo scudetto. Possono farcela... Glie lo chiedo anche per me, come regalo di compleanno».
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