venerdì 3 marzo 2017
Al Museo civico che conserva la Resurrezione viene proposto un confronto col pittore seicentesco alla luce degli studi del grande storico. Ma la mostra è una occasione perduta
Il «Ragazzo morso da un ramarro» di Caravaggio (Firenze, Fondazione Longhi).

Il «Ragazzo morso da un ramarro» di Caravaggio (Firenze, Fondazione Longhi).

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Ammettiamo solo per un istante che la storia abbia preso un’altra strada. Che Roberto Longhi abbia continuato nel suo primo proposito, quello di laurearsi nel 1911 sull’architettura militare dei vecchi castelli del Monferrato, tema che poi scartò per virare decisamente verso quello che, anche grazie a lui, diventerà uno dei casi critici del Novecento: Caravaggio. Ecco, se la storia avesse preso un’altra strada, la mostra che Maria Cristina Bandera ha ideato a Sansepolcro, forse oggi non si porrebbe nemmeno come ipotesi. Intanto perché è intestata al nome di Longhi, ma soprattutto perché lo snodo Piero-Caravaggio ha assunto l’importanza che ha per noi oggi, anche per l’opera di studio sui due artisti svolta dal grande storico, che portò a una lettura del tutto nuova di entrambi. C’era qualcosa nell’aria. Quando Longhi decise per Caravaggio un altro giovane studioso, Lionello Venturi, figlio di Adolfo che per primo intuì le potenzialità sulfuree di Longhi, stava lavorando su Caravaggio.


Essendo più vecchio di Longhi di cinque anni, Lionello nel 1910-1912 aveva pubblicato già alcuni studi su Caravaggio, e poi ancora nel 1925. Ma è un ritardo che Longhi colma di slancio. E non finisce qui. Manca l’altro polo del discorso al centro della mostra di Sansepolcro, quello del padrone di casa: Piero della Francesca. E anche in questo caso, il gioco coinvolge tanto Longhi quanto Venturi, con sviluppi cronologici diversi, ma sorprendentemente speculari. Longhi pubblica una importantissima monografia sul pittore di Borgo Sansepolcro nel 1927 (ma i primi saggi che lo collegano alla pittura veneziana sono del 1914, e come ricorderà lo stesso autore sono saggi di «strenuo storicismo stilistico») cui seguirà, sette anni dopo, il capolavoro dell’Officina ferrarese che in Piero ha una stella polare.

Venturi invece aspetterà fino al 1954 per condensare in una monografia il suo distillato critico su Piero. A porsi fra loro come antagonista di entrambi sarà Bernard Berenson che nel 1950 darà alle stampe ben due saggi, uno su Piero e l’altro su Caravaggio (pittore di cui subiva il fascino, anche se irritato dal suo stile che giudicava prosaico). Il fatto che questa triade di maestri della storiografia novecentesca abbia fermato la propria attenzione, chi più chi meno (Longhi, come suo solito, volendo primeggiare è quello dei tre che spende più energie critiche), sull’opera di Piero e Caravaggio deve far riflettere. Credo che si possa dire che tutti e tre gli storici hanno intuito il ruolo particolare svolto dai due geni nella storia dell’arte; ovvero, li considerano con sguardi anche molto contrastanti, le due parentesi visive dentro le quali è contenuta l’epoca che chiamiamo moderna.


Naturalmente si tratta di spartiacque aperti, drenanti, a volte contundenti; comunque li si voglia definire: chiudono e aprono, aprono e chiudono rispetto al passato-futuro. Piero, che muore il 12 ottobre 1492, quando Colombo scopre l’America, è come se mettesse il sigillo a ogni strascico tardo medievale e con la sua opera distillata, plastica, metafisica («l’arte non eloquente » cara a Berenson) ponesse le basi e l’inizio per una nuova età, quella rinascimentale; Caravaggio, che muore nel 1610, chiude l’epoca aperta da Piero e apre quella di una modernità che parla una lingua più esistenziale, dove l’immanenza del mondo è fonte di e- mancipazione dell’uomo ma anche di scoperta della sua piccolezza nel cosmo; esile grandezza di chi perde sensibilità verso il trascendente e sviluppa enormemente il sentimento delle cose, della realtà. Longhi comincia a pensare a Caravaggio nel 1910; ne correrà di acqua sotto i ponti prima che si arrivi al 1951, quando allestisce nel Palazzo Reale di Milano la più grande mostra su Caravaggio mai fatta. Orgogliosamente nel catalogo sottolinea l’impresa di aver riunito oltre quaranta opere del pittore su un totale che, all’epoca (prima della scriteriata politica di ampliamento condotta da alcuni storici dell’arte negli ultimi decenni) ne sommava una cinquantina. L’impresa è rimasta irripetibile, anche come numero dei visitatori: mezzo milione.

Verso la fine del suo saggio Longhi sfodera una delle sue definizioni memorabili: ricorda che se all’inizio del Novecento, per via di un idealismo «troppo attraente», si era corso il rischio di usare per Caravaggio gli stessi argomenti estetici che la sua pittura aveva invece sbaragliato, prefigurando affinità elettive come quelle di volta in volta con Bronzino o Ingres, dopo quarant’anni di studi l’accostamento preferenziale va invece a Courbet e Manet (e fra le righe rivendica i meriti di questa virata critica). Per chiarire di quale rischio si trattò, Longhi scrive che Caravaggio stava per diventare «una specie di “portiere di notte” del Rinascimento», ovvero, considerata l’antipatia longhiana verso quell’epoca artistica, «l’ultimo dei superuomini cinquecenteschi ». E Piero? Piero è il campione di una essenzialità terragna, che plasma figure di selvatica bellezza (così il Cristo risorto di Sansepolcro appare a Longhi «orrendamente silvano e quasi bovino »). Piero è un artista che esce dalla terra contadina come un albero maestoso e sacro, o una stele antropomorfa che nella forma-colore prefigura la ricreazione del mondo: «sintesi prospettica di forma e colore» scrive nel celebre saggio del 1927, dove lega l’«ascendenza» fiorentina alla «discendenza» veneziana con Antonello da Messina (di cui ancora si discute se arrivò mai a Venezia) e Giovanni Bellini. Così Longhi crea una sorta di ircocervo storico-critico teso a superare la rigida separazione fra disegno e colore che opponeva scuola fiorentina e scuola veneta.

L’esposizione è però fatta di poche opere: il Polittico della Misericordia, la Resurrezione (chiusa dentro una struttura che la mostra in restauro), il frammento di affresco staccato del San Giuliano, il Ritratto di giovane di Ercole de’ Roberti, la versione della Fondazione Longhi del Ragazzo morso da un ramarro di Caravaggio (accostato a un disegno dello stesso Longhi che lo riproduce), e una serie di materiali di documentazione: la stampa fotografica della Madonna col Bambino e quattro angeli (e un disegno di Longhi che la riprende), alcuni fogli manoscritti dello storico per i saggi del 1914 su Piero, per l’Officina ferrarese, poi la monografia del 1927, la tesi di laurea di Longhi su Caravaggio, la monografia sullo stesso del 1952, i due cataloghi della mostra del 1951: non tutti sanno che vennero stampate due edizioni di quel catalogo, a distanza di un mese l’uno dall’altro, dove Longhi – a dimostrazione di quanto fosse attento al proprio stile di scrittura – ha apportato alcune correzioni di forma al suo saggio introduttivo. Ritengo questa mostra utile per il tema che pone, ma anche un’occasione persa. Sia perché avendola incentrata su Longhi, ricade in certi stereotipi che fanno dello storico l’unico degno di essere ricordato riguardo a un tema che invece, come è evidente, coinvolge l’intera storiografia critica del Novecento; sia perché non consente di verificare su un adeguato numero di opere ipotesi critiche, intuite da Longhi e da altri, che ancora faticano a entrare nella mentalità di studio, e da cui potrebbero venire chiarimenti sostanziali sulla discontinuità o continuità fra Rinascimento e Seicento, ma anche per l’inquadramento dell’opera dei due grandi artisti in un tempo che non sia soltanto il loro tempo storico e cronologico.



SANSEPOLCRO, Museo Civico

PIERO DELLA FRANCESCA E CARAVAGGIO

Nel segno di Roberto Longhi

Fino al 4 giugno

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