giovedì 22 gennaio 2009
Grazie all’opera del direttore Paolo Salvatore ci furono pochi morti e gli oltre 3600 internati, per tre quarti ebrei, ricevevano una «paga»
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Tra le segrete spinate dell’Olocausto e le sue mille memorie ferite esistono frammenti di verità non ancora esplorati fino in fondo. Uno di questi è il capitolo, poco noto, che riguarda il più grande campo di concentramento di Mussolini, di cui le voci dei protagonisti ora si possono leggere in Ferramonti di Tarsia (Mursia, in libreria nei prossimi giorni): ricostruzione di eventi dal 1940 al ’45, realizzata con cura certosina da Mario Rende che di mestiere non fa lo storico ma il professore di Anatomia alla facoltà di Medicina di Perugia. Ferramonti, in Calabria, è un luogo che stava per finire nella già ricolma discarica dell’oblio. Forse perché quando si parla di Olocausto è ormai consuetudine che, per impressionare ulteriormente, servano i grandi numeri della catastrofe. Qui le cifre invece sono basse e dagli archivi non riaffiora neppure una foto di «scheletri che camminano» prima di finire nelle fosse comuni; appena 12 furono i decessi in tre anni, su una popolazione di 2063 internati, il 75% dei quali ebrei (in tutto ne passarono 3.682), e nessuno di loro è finito sotto la mannaia del boia nazifascista. Quando il mattino del 14 settembre 1943 gli inglesi entrarono a Ferramonti per liberare i prigionieri, con stupore si trovarono dinanzi a un campo che appariva come «un paradiso in confronto a quelli tedeschi». Merito soprattutto del direttore Paolo Salvatore, avellinese come il «giusto» di Trieste Antonio Palatucci, ex legionario fiumano assurto al rango di commissario di pubblica sicurezza. Dal suo memoriale emerge la figura dell’uomo di alti principi morali, «legato più all’onore e all’amore per la patria» che non al regime fascista: «Nell’atrio della stazione volli rassicurarli che sarebbero stati trattati con il massimo rispetto della personalità umana e mi parvero rinfrancati», ricorda il commissario del giorno che dalla stazione di Mongrassano condusse i primi internati al campo. Un centinaio di donne (ebree polacche, jugoslave, tedesche, cecoslovacche, ungheresi) e madri con i loro «tanti bellissimi bambini» strappati alla libertà. In quel campo, in cui vennero edificate 92 baracche per ospitare i prigionieri, già esistevano i capannoni costruiti dalla ditta Parrini di Roma, incaricata di bonificare una zona in cui aleggiava costantemente la malaria; da essa ci si difendeva con pesanti dosi di chinino, che comunque non poterono evitare 400 infetti tra gli internati. Il commissario Salvatore riuscì almeno ad evitare ai suoi prigionieri le umilianti adunate seguite dai contrappelli all’aperto che erano di prassi in campi italiani assai più crudeli, come quello triestino della Risiera di San Sabba. Aboliti i lavori forzati, a Ferramonti ai prigionieri veniva concesso un sussidio di 8 lire giornaliere (poi salito a 15), si praticavano diverse attività commerciali – come la lavanderia aperta dalla comunità cinese – oltre a quelle creative che andavano dal teatro alla musica fino alle partite di calcio con la squadra tedesca, in questo caso composta dagli ebrei di origine germanica. Uno scenario dunque che non stupisce se allo storico di Cambridge Jonathan Steinberg è parso quello del «più grande kibbutz del continente europeo». E, se fosse stato per il commissario Salvatore, anche i reticolati sarebbero stati eliminati in quel villaggio in cui vennero accolti coloro che erano miracolosamente scampati ai lager tedeschi: uomini illustri come i greci Evangelo Tossitza Averoff, all’epoca prefetto di Corfù poi futuro ministro degli Esteri (e autore del romanzo Prigioniero in Italia) e l’archimandrita ortodosso Akakios, i quali vennero «trattati col dovuto riguardo». Ma un occhio di umana compassione Salvatore l’ha avuto per ogni singolo internato, a cominciare dai bambini: «A Ferramonti era permessa ogni attività… Confesso che per me è stato come un campo di vacanze, sembra ridicolo ma è vero», è il ricordo di Oscar Klein, uno dei piccoli prigionieri ebrei ai quali continuarono ad arrivare pacchi dono grazie all’attività incessante consentita all’opera pia della «Mensa dei bambini» di Isak Israel. Uno sbilanciamento in netta controtendenza con la strategia della «soluzione finale». Nel gennaio del ’43 Salvatore, per difendere l’ebreo Samuele, arrivò in rotta di collisione con il centurione fascista Alberto Zei (che aveva partecipato al delitto Matteotti); l’inchiesta che ne seguì portò al trasferimento forzato dalla Calabria a Chiavenna (So), ma anche senza il suo direttore nel campo non venne mai meno il principio di democrazia che trovò la massima espressione nel parlamento degli internati in cui si eleggeva il capo dei capi». Ultimo rappresentante dei prigionieri sotto la gerenza inglese, prima della chiusura definitiva del campo (l’11 dicembre 1945) fu il maestro Lav Mirski, direttore dell’orchestra di Osijek e grande animatore delle stagioni concertistiche particolarmente apprezzato da Callisto Lopinot, il cappellano di Ferramonti. L’anziano e barbuto padre Lopinot con l’«energia di un ventenne» era arrivato lì per volontà del Vaticano che inviò vestiario, generi di prima necessità e le copie dell’Osservatore Romano, che con la radio consentirono ai prigionieri di non sentirsi mai fuori dal mondo. «Le autorità, soprattutto il direttore cercano di alleggerire il peso degli internati invece di renderlo più pesante come si fa – secondo ciò che ho sentito – negli altri Konzentrationslager », scrive nel suo memoriale padre Callisto. Il quale in molti passaggi chiarisce una volta di più la posizione di solidarietà assunta dalla Santa Sede e soprattutto da Pio XII nei confronti degli ebrei.
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