giovedì 26 gennaio 2023
Raccolte in volume le interviste dello scrittore morto un anno fa. Dagli anni 70 al 2014, è una immersione nella sua mai banale attitudine a scrutare il mondo
Lo scrittore Gianni Celati (1937-2022)

Lo scrittore Gianni Celati (1937-2022) - Ansa / Andrea Merola

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Scrittore autonomo, Gianni Celati lo era per indole: autonomo rispetto alla sua propria professione, all’ambiente letterario italiano, allo stesso destino che lo aveva fatto esordire grazie a un primo interessamento da parte di Italo Calvino poi tradottosi in una proposta editoriale della stessa Einaudi. Nonostante tale istintiva libertà, a lui connaturata e che ha significato anche ariosità di spazio creativo e di fervore scrittorio, il «cerimoniale del narrare», come lo stesso Celati lo chiamava, ha significato per lui far fronte a più di una frattura, interna ed esterna, e addivenire a consapevolezze tutte dettate da una sua intransigenza che era sì mite, ma anche decisa e ferma, la stessa che lo ha portato con analoga, non indurita radicalità, a separarsi da cose, forme, persone.

Di questo attraversamento racconta l’imponente volume che raccoglie le sue interviste (Il transito mite delle parole. Conversazioni e interviste 1974-2014, a cura di Marco Belpoliti e Anna Stefi, Quodlibet, pagine 644, euro 24,00). Una silloge di dialoghi da Gianni Celati intrattenuti con interlocutori diversi – studenti e giornalisti, scrittori, editori, Franco Marcoaldi e il compianto Severino Cesari, artefice del bel titolo poi ripreso per questo volume. Intervistato, Celati sempre replica pacato, generoso nell’offrire condivisione dei propri ferri del mestiere di narratore e osservatore minuzioso, accurato, paziente testimone, cosciente che «si osserva davvero qualcosa soltanto quando si ha voglia di trasmetterlo ad altri». La mitezza del transito delle parole è allora forma di buona educazione, un creare immagini e poi comunicarle attraverso ciò che viene detto nello scritto, e sempre facendolo nel segno di un garbo sommesso, prudente se pure fiducioso nel valore del rispetto, ovvero mai gridando, mai nulla imponendo, mai muovendosi in una dinamica di rapporti di forza.

Fedele a stesso garbo, Celati su ogni suggestione si sofferma, riflette meditabondo, sempre “preparato”, nelle risposte sviscerando le questioni narrative che più gli stanno a cuore, quelle che se pure con la mitezza di tutto quanto lo riguarda, lo assediano. La questione della lingua intesa come ricordo, dello scrivere e usare il linguaggio come gesto di memoria mai pensandolo come oggetto oggettivo, a sé stante. O l’altra idea letteraria parimenti fondante per il suo lavoro, quella secondo cui ogni racconto è un’inserzione nel tempo, un «processo di attesa, attesa di una voce che venga a me e ricapitoli il passato e crei la memoria».

Ampia silloge di conversazioni variegate e tra loro diverse per misura, statura, tenore, contesto, ma che tutte ribadiscono un principio a cui lo stesso Celati avrebbe forse accordato plausibilità. Quello di una “vera” voce di scrittore che tragga originalità, e spessore, e autonomia, soprattutto dalla virtù della riflessione, del saper pensare sé stessa come voce, e così pensandosi, libera di stagliarsi da uno sfondo che rischierebbe altrimenti di opacizzarla, renderla mero automatismo di esercizio, mera sfida. Proprio perché amava il vivere appartato, laterale, lontano da ogni assertività gridata e dalla cruda luce artificiale del successo cercato artatamente, proprio perciò, mite e affilato Gianni Celati sapeva concedersi ampi margini di tempo e di spazio così da poter pensare cosa sia scrittura, e cosa una voce, e cosa, ancora, l’incunearsi di quella voce in stessi spazio e tempo.

È lui a condurre per mano i suoi molti intervistatori e interlocutori, facendolo con la saggezza e la compostezza di chi sa bene che ogni dialogo è l’eco che semina, è sedimento trovato in un tempo successivo, memoria che va costruendosi nell’atto del ripensare. Così come, con stessa pacata sapienza, in altri dialoghi è lui a portare la conversazione sullo sguardo, e cosa sia guardare; lui, Celati, che a un certo punto della carriera (termine quanto mai al suo caso alieno, da sostituirsi forse piuttosto con “percorso”, o addirittura con “strada”) aveva incominciato ad affiancare allo scrivere il filmare, fare documentari (primo dei quali, prodotto da Rai Tre, fu una liberissima versione filmica del libro Verso la foce).

L’importanza della fotografia di Luigi Ghirri, quella anche emerge bene da alcuni di questi dialoghi. Ghirri fu per Celati maestro di un’attitudine insieme critica e contemplativa del paesaggio italiano, osservato nel dettaglio nitido dei suoi incessanti mutamenti. E la sintonia tra i due fu per Celati tappa decisiva del suo cammino verso la «scrittura come visione »: una ricerca che lo rese ancora più appartato, più profondo, e riflessivo, e lento, di una lentezza tesa a costruire, lasciar sedimentare, mostrare, far pensare il lettore, mai distanziandosi né distanziandolo dalla mite esattezza del tempo, e neppure da quella, più mite ancora, delle parole, còlte e trattenute nel corso del loro inarrestabile, infallibile transito.

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