Gli scatti inediti di Sciascia, scrittore con la macchina fotografica
lunedì 11 gennaio 2021

«La fotografia è la forma per eccellenza: colta in un attimo del suo fluido significare, del suo non consistere, la vita improvvisamente e per sempre si ferma, si raggela, assume consistenza, identità, significato. È una forma che dice il passato, conferisce significato al presente, predice l’avvenire». Leonardo Sciascia amava la fotografia. Non a caso alcuni dei suoi amici più cari erano fotografi: Enzo Sellerio, Ferdinando Scianna, ma anche Giuseppe Leone e Melo Minnella, in un dialogo a più voci che si incrociava fra le loro opere. Fu Sciascia a 'battezzare' l’esordio di Scianna con il memorabile testo per Feste religiose in Sicilia (edizioni Leonardo da Vinci, 1965) per poi stringere un intenso sodalizio editoriale e di fraterna amicizia con innumerevoli scritti e volumi firmati insieme (nel ricordo postumo sono deliziose le pubblicazioni per Henry Beyle). È di Ferdinando Scianna uno dei ritratti più celebri di Sciascia, quello nella chiesa di Sant’Anna a Racalmuto, con l’urna del Cristo morto alle spalle e due bimbe davanti (1964). «Ho fatto di Leonardo Sciascia, del mio amico Leonardo, del mio angelo paterno – scrive il fotografo di Bagheria in Visti&Scritti (Contrasto) – centinaia e centinaia di fotografie nel corso della nostra amicizia. Ma quella immagine misteriosamente, per mia fortuna, per mio orgoglio, ha continuato a essere vista come il più emblematico tra i suoi ritratti, quello che nell’imprevedibile accamparsi, in un istante, di quegli elementi formali e narrativi, più sinteticamente rappresenta l’uomo e lo scrittore». Ritratti occasionali, mai "professionali", mai richiesti. Erano foto di un «album di famiglia», la testimonianza visiva di un'amicizia profonda e schietta fra lo scrittore e il fotografo. Solamente in un caso Sciascia glielo chiese in maniera esplicita. Ricorda l'episodio Valentina Notarberardino in Fuori di testo (Ponte alle Grazie): «Nei suoi ultimi mesi di vita Sciascia viveva a Milano, in una casa in via Solferino che gli aveva prestato Elvira Sellerio. Aveva un tumore al sangue che lo aveva costretto alla dialisi. Pochi giorni prima di tornare a Palermo, dove morì, ricevette come d'abitudine Scianna: "Andavo a trovarlo anche due volte al giorno. Quella volta si era fatto tagliare i capelli corti, era a casa con la maglietta della salute e a un certo punto mi ha detto: 'Fammi una fotografia!'. Ho subito capito cos'era quella richiesta. Era il suo modo di dire: 'Mi hai fatto fotografie per ventisei anni, ora fammi l'ultima'. Quella foto non l'ho fatta vedere a nessuno, neanche a lui. Con quell'ultimo ritratto ho scoperto che c'era un senso esistenziale e narrativo in tutte le foto che avevo fatto a Leonardo"».
Sciascia suggellò anche le opere di Leone ne La contea di Modica (Electa, 1983): il fotografo ragusano racconterà di tanti momenti vissuti poi insieme, in particolare nella casa di campagna alla Noce, con Bufalino e Consolo, in Storia di un’amicizia (Postcart). Sciascia non si faceva soltanto affascinare dalla fotografia, ma scattava anche: foto di famiglia e ricordi degli innumerevoli viaggi. Ora, in occasione del centenario della nascita una serie di fotografie inedite scattate al principio degli anni ’50 del secolo scorso, sono esposte (al momento purtroppo le visite sono sospese per le misure anti-covid) presso la sede della Fondazione Leonardo Sciascia a Racalmuto (prevista fino al 20 febbraio). La mostra, intitolata Leonardo Sciascia e la Fotografia, curata da Diego Mormorio, presenta 27 istantanee che fissano impressioni di un continente in piena rinascita dopo il secondo conflitto mondiale e testimoniano, ancora una volta, l’interesse dell’autore de Il giorno della civetta, Todo modo, La scomparsa di Majorana e di tanti altri romanzi, per le arti figurative. Fra simmetrie e prospettive che dimostrano una profonda conoscenza della fotocamera, si susseguono scatti di paesaggi ancora poco toccati dall’uomo, città colte nei momenti di quiete e di silenzio, piccoli ricordi familiari.

Uno dei 27 scatti esposti nella mostra 'Leonardo Sciascia e la fotografia' a Racalmuto

Uno dei 27 scatti esposti nella mostra "Leonardo Sciascia e la fotografia" a Racalmuto - Fondazione Leonardo Sciascia

Ed ecco le sagome di due ciclisti, sotto gli archi di pietra, allora pericolanti, del centro di Randazzo; una contadina a Racalmuto che, casa per casa, munge e vende il latte della sua capra; abitazioni quasi scavate nella roccia e, a contrasto, il porto di Palermo, la laguna di Venezia, l’architettura di Gaudí a Barcellona. Poi il quadro familiare: la moglie e le figlie dello scrittore, incastonate dentro sfondi che ricordano i dipinti di Caspar David Friedrich. Uno sguardo che rivela un’umanità semplice, un mondo muto, senza colori, eppure sano e felice. Una vita, guardando soprattutto il momento che viviamo, che si fa rimpiangere. Lo stesso Sciascia, negli ultimi anni della sua vita, aveva sintetizzato questa sensazione nella battuta «il brutto che è passato è quasi bello». Nella sua introduzione al catalogo della mostra, edito da Mimesis, Mormorio sostiene la tesi di Sciascia: la fotografia è verità momentanea, e soprattutto «verità che contraddice altre verità di altri momenti». La mostra è pronta ad accompagnare le celebrazioni per il grande scrittore. Ne seguirà nei prossimi mesi un’altra con le foto di scena realizzate da Enrico Appetito sul set del film Il giorno della civetta. L’allestimento, già presentato nel 2018 all'Auditorium, si tramuterà in sorta di esposizione itinerante, con foto e gigantografie distribuite su tutto il territorio di Racalmuto. In quell’intreccio fra letteratura, fotografia e cinema di cui sono intrise le pagine e la vita di Leonardo Sciascia.

Una foto e 861 parole.

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