lunedì 8 novembre 2021
In "L'epoca dei riti tristi" Manuel Belli applica alla liturgia della Chiesa cattolica lo schema di Benasayag e Schmit sulla nostra "epoca delle passioni tristi"
Messa sul tetto della chiesa di Santa Rosa di Tomayquichua, nel cuore delle Ande peruviane

Messa sul tetto della chiesa di Santa Rosa di Tomayquichua, nel cuore delle Ande peruviane - web

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La nostra non è solo l'epoca delle passioni tristi, come hanno denunciato in un saggio divenuto famoso Michel Benasayag e Gérard Schmit, ma anche dei riti tristi: è questo il parere di Manuel Belli, teologo e sacerdote della diocesi di Bergamo, che in un denso volume (intitolato appunto L'epoca dei riti tristi, Queriniana, pagine 228, euro 16,00), applica lo schema dei due psicoterapeuti alla liturgia della Chiesa cattolica. Il discorso riguarda in particolare la celebrazione della Messa domenicale, spesso contrassegnata da banalità e sciatteria se si pensa alle omelie, e tutte le altre le funzioni, dai battesimi ai matrimoni ai funerali, ma in generale tocca alcune questioni oggi vitali per il cattolicesimo italiano: come rendere la fede affascinante per i giovani e come innervare di forme di cultura cristiana una società postmoderna che sembra sempre più restia a farsi contaminare?


Giustamente l'analisi parte da alcuni dati inconfutabili: i ragazzi che dichiarano di frequentare la chiesa una volta alla settimana – secondo una recente indagine dell'Istituto Toniolo – sono poco più del 10 per cento, molti lo fanno in maniera del tutto occasionale, una o qualche volta durante l'anno (il 20%), mentre il 25% non vi partecipa mai. A livello complessivo, il fatto rilevante è che non solo diminuisce chi si definisce cattolico, «ma per la prima volta nella storia la maggioranza di chi si riconosce cattolico non partecipa ai riti». Dinanzi a cifre che testimoniano come la secolarizzazione continui a galoppare a vele spiegate, sarebbe un errore irrigidirsi invocando un ritorno al passato e condannando sic et simpliciter il nuovo che avanza.

Si tratta innanzitutto, per l'autore, di essere consapevoli del cambiamento e di immergervisi: «I riti religiosi hanno un'altissima densità di senso, così alta che sembra non essere supportata dalla capacità rituale della nostra epoca. Ma non è un problema degli altari o dei confessionali: è una questione più estesa. Viviamo un'epoca di riti tristi caratterizzati da basse densità di significati». Così, Manuel Belli prova a prendere in esame alcune esperienze di base della ritualità, dal mangiare al viaggiare, dall'ascoltare musica all'uso di internet, dal giocare al lavorare sino alle relazioni amorose. Il tutto per far capire come, se l'approccio dominante sembra caratterizzato dalla provvisorietà e dall'occasionalità, ci possono essere modalità di intervento da parte dei credenti che aiutino ad andare oltre una prospettiva di corta durata. Urto e ozio, per quanto paradossali, sono allora due parole chiave.

Urto sta per capacità di tornare a provocare come fece Paolo all'Areopago: «Non abbiamo stretto troppi compromessi, per cui l'ideale del cristiano è troppo simile a quello di un bravo ragazzo pieno di valori? Dovremmo forse recuperare una dimensione di urto? Non violento e polemico, ma profetico». Ozio invece sta per fare spazio al silenzio e al raccoglimento, quello che nel caso del gioco dei bambini è il tempo della noia da cui scaturiscono nuove modalità di divertimento. Così può essere anche per gli adulti: avere momenti di pausa e meditazione può accendere la fantasia e stimolare nuove esperienze positive. Ma come detto situazioni quali i riti del viaggio all'epoca di Ryanair o dell'amore all'epoca di Tinder interrogano i cristiani: «Che il postmoderno sia un periodo dove si è contemporaneamente ovunque e non si è mai da nessuna parte ha risvolti liturgici»: come rendere i pellegrinaggi o le processioni forme autentiche e non sclerotizzate? E quando le relazioni amorose sono perlopiù occasionali o virtuali, come stimolare i ragazzi all'idea del «camminare insieme sfidando il tempo e azzardando un "per sempre"?».

L'autore non ha risposte preconfezionate dinanzi a queste nuove sfide: l'invito è prima di tutto a conoscere la realtà in mutamento e, per quanto riguarda la liturgia, a curare i tempi di ascolto della Parola, a creare possibilità di approfondimento e tempi di contemplazione: «Le analisi sociologiche, le tecniche psicologiche e le tattiche animative possono essere utili, ma ogni servizio nella Chiesa è tale quando la sua sintesi è spirituale e contemplativa». Come ha ben scritto al riguardo il fondatore della comunità di Bose Enzo Bianchi, «una liturgia bella non può essere definita una "bella funzione", ma deve essere compresa come liturgia munita di quella bellezza che fa apparire la grazia di Dio». Inutile andare in cerca di aggiunte, decorazioni, ornamenti o pizzi. Né fasto né ieraticità servono all'uopo: la bellezza della liturgia non si esaurisce in una suggestione estetica. Così, può essere egualmente bella, se celebrata con convinzione e serietà, una funzione «in una sperduta parrocchia di un paesino di montagna, cui partecipa un gruppetto di persone anziane, quanto la liturgia di una comunità monastica o di una cappella papale».


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