mercoledì 16 giugno 2010
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Negli anni Cinquanta e Sessanta gli Stati Uniti di Kennedy puntano su un’Europa capace di essere uno dei due pilastri dell’Alleanza atlantica. L’Italia di Fanfani, nello scenario europeista e di fedeltà atlantica, è convinta di avere un ruolo utile all’Occidente e ai propri interessi. Le questioni del Mediterraneo hanno avuto sempre una funzione importante a questo fine. I governi italiani – pur riconoscendo l’esistenza dello Stato d’Israele e mantenendo con esso rapporti – scelsero come interlocutori i Paesi arabi. Fino alla seconda metà degli anni Cinquanta questa scelta fu determinata innanzitutto dalla presenza di consistenti comunità di connazionali in Egitto e in Libia; a ciò si aggiunse il tentativo di difendere interessi economici rappresentati da aziende italiane interessate all’espansione nel mondo arabo. Il neo-atlantismo mediterraneo ebbe interpreti di matrice politica diversa, ma con l’obiettivo finale di rafforzare la presenza italiana sullo scenario internazionale, senza intaccare il cardine del rapporto con gli Usa. L’avvicinamento definitivo di Israele agli Stati Uniti, dopo il 1956, spinse l’Italia in una posizione mediana in campo mediorientale, potremmo dire per «evitare lo squilibrio» del conflitto arabo-israeliano, che l’avrebbe messa nell’obbligo di operare una scelta. Lo scoppio della guerra arabo-israeliana del 1967 mise a nudo la fragilità di questa posizione e aprì una spaccatura in seno al governo dove i partiti alleati minori (Psi, Psdi, Pri) appoggiarono Israele, contrapponendosi alla Dc, soprattutto al ministro degli Esteri Fanfani, che propugnava l’equidistanza. La soluzione fu trovata da Moro, il quale riuscì a far rifluire la politica estera italiana sulle posizioni più generiche di compromesso espresse dall’Onu. In seguito l’Italia aderì pienamente alla risoluzione 242 dell’Onu del 16 novembre 1967, nella quale si intimava al governo di Tel Aviv il ritiro dai territori occupati e, nel contempo, si chiedeva agli arabi di riconoscere l’esistenza di Israele. Da quel momento la 242 fu la bussola della politica italiana in Medio Oriente. Fanfani, presidente del Consiglio e ministro degli Esteri, nel 1958 dichiara alla Fiera di Bari: «Sia come storico, sia come capo del governo, non posso dimenticare che l’Italia era doppiamente grande quando era consapevole della sua funzione di ponte tra l’Europa e i Paesi del Mediterraneo. L’Italia ha ritrovato oggi questa consapevolezza in un’atmosfera di libertà e di pace». Questa politica mediterranea segna una ripresa delle tematiche care all’Italia preliberale, mentre il fascismo aveva proiettato nel mare nostrum un’immagine di potenza alla ricerca dell’egemonia. Non era stata così la presenza dell’Italia liberale, che aveva vissuto nel Mediterraneo stabilendo una rete di connessioni, come scrive Vittorio Ianari. Fin dal maggio 1947, il ministro degli Esteri Sforza scriveva all’ambasciatore italiano a Washington: «L’Italia per la sua posizione geografica, per le sue esigenze demografiche ed economiche deve infatti necessariamente svolgere una politica araba. Può dirsi anzi che le relazioni fra Italia e il mondo arabo costituiscono uno degli elementi essenziali della nostra politica estera». In questa prospettiva l’Italia democristiana tenta una nuova presenza attraverso i contatti con i Paesi arabi e la politica petrolifera dell’Eni. Enrico Mattei, con la sua rete di presenza petrolifera nei Paesi mediterranei, ha la capacità – specie dal 1957, dopo Suez – di trasformare la sua politica con i Paesi del Sud, competitiva con gli interessi americani, in una specie di crociata per queste nazioni, alla cui testa egli si pone. L’amicizia con gli arabi, per Fanfani, non nega che Israele sia una realtà che «esiste, e non si può distruggere», come dice nel 1958 a Golda Meir. Tanti sono gli scenari politici diversificati in cui si esprime la posizione italiana: da Suez alla guerra d’Algeria, alla crisi del 1967. Questo è un anno difficile per la diplomazia italiana. Così parlano gli italiani agli arabi nel giugno 1967: «Mi incontro col ministro degli Esteri di Siria Makhous – scrive Fanfani – di ritorno da Algeri e Parigi. Mi dice che ad Algeri si è imbronciati con l’Italia perché non si schiera con gli arabi, senza complimenti per Israele. Gli rispondo che gli arabi farebbero bene a non fare proclami razziali e a dichiarare che benché in conflitto con Israele non si propongono il genocidio. Mi assicura che non è vero, gli replico che lo dichiari pubblicamente». Secondo Fanfani l’Italia deve evitare che il Mediterraneo, per il gioco di contrapposizione tipico della guerra fredda, dia spazio all’influenza sovietica. Per questo accoglie con soddisfazione l’invito algerino a compiere una visita: «Interessante è la motivazione: ci siamo accorti che i sovietici non fanno i nostri interessi e dobbiamo rivedere la nostra politica mediterranea, portandola su intese bilaterali, specie con l’Italia», si legge nel Diario.Al rapporto con il mondo arabo si accosta quello (che appare meno complesso) con i Paesi decolonizzati. Fanfani è convinto che tra i loro dirigenti e tra le stesse popolazioni ci sia un’ansia di nuovo protagonismo che va recepita. Nel 1960 scrive a Kennedy: «La pace si difende attirando alla sua causa la gente pacifica del mondo e i popoli nuovi arretrati ed ancora non impegnati. Ma la gente pacifica e i popoli nuovi si schierano dalla parte di chi, pur essendo forte e deciso a difendere la libertà, dimostrerà di voler dare una salda base alla pace, imponendo costruttivamente l’azione per il disarmo e quella per lo sviluppo delle aree arretrate... il tempo utile comincia ad essere molto scarso». L’Italia, entrata nell’Onu nel 1955, si colloca con una posizione sempre più attenta ai Paesi nuovi nel dibattito tra colonialisti e anticolonialisti. Il governo Fanfani, senza rompere la solidarietà atlantica e valorizzando le Nazioni Unite, vedeva nella fine del colonialismo un positivo allargamento dell’area della libertà. Nel 1958 l’Italia ottiene il posto al Consiglio di sicurezza con una politica di vaste simpatie. Non è contraria nel 1962 alla successione del birmano U Thant a Dag Hammarskjold, nonostante le perplessità di taluni settori che lo vedevano troppo prossimo alla Cina. Sulla questione dell’ammissione di Pechino all’Onu non segue de Gaulle e si mantiene fedele agli Stati Uniti, pur non negando l’utilità di un possibile ingresso del più grande Paese del mondo al Palazzo di Vetro. Anche sul Sudafrica razzista non persegue una politica dura. Eppure, conduce un’ampia opera di attenzione al Sud del mondo, convinta che si debba esercitare – come La Pira diceva – un’attrazione. L’Italia vuole rappresentare un Occidente postcoloniale, aperto al mondo dei Paesi nuovi.
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