giovedì 7 maggio 2020
La versione integrale del racconto di Arturo, uno dei capolavori della Morante, letto dall’attrice Iaia Forte. Romanzo di formazione o rifiuto del passaggio all’età adulta?
Elsa Morante

Elsa Morante - WikiCommons

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L’attrice Iaia Forte legge L’isola di Arturo. L’audiolibro dell’incantatorio romanzo di Elsa Morante, pubblicato da Emons edizioni (1 CD MP3, versione integrale; download euro 10,74) va in libreria oggi. L’audiolibro dell’Isola di Arturo è anticipato da un’audiointroduzione di Carola Susani, che proponiamo in queste colonne. A proposito della lunga esperienza che la lega a questo romanzo della Morante, la Forte confessa che la prima volta in cui lo lesse era molto giovane: «I personaggi erano così vivi che mi sembrava di averli accanto, di sentire il loro calore nella stanza in cui leggevo. Quando in età adulta, ho deciso di rileggerlo, ho sentito che la memoria “fantastica” della prima lettura era rimasta intatta e che questo libro, per me, avrebbe incarnato per sempre l’adolescenza».

L’isola di Arturo uscì nel 1957 e vinse il Premio Strega. Lettori e critica lo festeggiarono insieme, fu un libro letto, molto amato, generazione dopo generazione. Conosco madri che hanno chiamato il figlio Arturo per la fascinazione che quel libro esercitò su di loro. La storia è ambientata sull’isola di Procida, amatissima da Elsa, anche se l’isola nel libro non viene mai nominata. Protagonista del romanzo è un ragazzo, Arturo. Arturo, la cui madre giovanissima è morta di parto, vive nella Casa dei guaglioni, un palazzo che – esclusa la ragazzetta che fu sua madre – non è stato mai solcato da piede di donna. Vive in un profondissimo stato d’abbandono, il disordine e il degrado delle stanze in cui il ragazzo abita, a entrare in quelle stanze, ci farebbe orrore, ma Arturo, che è l’io narrante della storia, capovolge quel disordine di segno, lo rende epico. Arturo racconta retrospettivamente, ad avventura finita. Epico ed eroico diventa tutto quello che sfiora il suo sguardo infantile. Come era stato in Menzogna e sortilegio, il primo voluminoso romanzo di Elsa Morante, si narra lo sforzo da parte di un ragazzo – in Menzogna e sortilegio lo sforzo era della madre della protagonista – di trasformare la desolazione di una vita povera di cose e di affetti in una meraviglia. Ma a differenza che inMenzogna e sortilegio, l’incantesimo agisce per davvero e crediamo ad Arturo quanto lui ci crede. La concretezza vitale del mondo naturale sostiene lo sforzo di trasfigurazione, gli dà realtà.

In solitudine il ragazzo si muove per l’isola, lo accompagna la cagna Immacolatella. L’isola meravigliosa, regno di Arturo, domina la scena. Il padre non c’è quasi mai, ma quando si mostra è una figura che ha fascino e potere, come un ragazzo cresciuto senza mutare, senza cedere. Della madre ad Arturo non è rimasta che una foto che la ritrae quasi bambina. Non c’è altro. La madre è una tela bianca e lui può idealizzarla come vuole, lei e l’amore senza fine che gli avrebbe portato, se ci fosse stata. È lei che gli ha dato quel nome dall’altissimo valore araldico, come dice una stella della costellazione di Boote, un sovrano potentissimo ed equanime, benché leggendario. La madre, «in se stessa, non era altro che una femminella analfabeta; ma più che una sovrana, per me» come ci dice. Dello sguardo materno Arturo fa esperienza attraverso la cagna Immacolatella, e il suo sguardo ha una radicalità assoluta, non essendo umano. Di animali è pieno il romanzo, le lucertole, i ragni, i gufi. Il ragazzino nutre i luoghi e i paesaggi che ha attorno della sua capacità di creare incanto. Arturo racconta in prima persona della sua vita, di suo padre Wilhelm Gerace, che vive fuori dall’isola avventure di cui lui non sa niente, e che un giorno torna a casa con una ragazza, Nunziata, poco più grande di Arturo. Wilhelm l’ha sposata. Il libro, se volgiamo isolarne la trama, è la storia dell’incontro fra Arturo e Nunziata, della diffidenza e della gelosia di Arturo, dell’attrazione che Arturo prova per lei, di come si sforzi di nasconderla dietro al disprezzo, dell’innamoramento, e infine della separazione. Benché abbia sposato Nunziata, Wilhelm ama gli uomini, e manifesta per le donne quello stesso disprezzo che Arturo mostrerà verso Nunziata.

L’isola di Arturo è anche la storia dell’irruzione di una donna in un equilibrio che non la contempla. Arturo usa il disprezzo paterno, non avendo che quello a disposizione per esprimere la complessità di sentimenti che prorompe, ma a poco a poco Nunziata, con una calma, una saggezza, una capacità d’accoglienza non del tutto umane – quella capacità che Elsa Morante immagina sia delle femmine degli animali e di alcune madri – lo conquisterà. Poi Nunziata metterà al mondo un bambino. L’isola di Arturo finge di essere un romanzo di formazione, cioè un romanzo che racconta la crescita del protagonista, il processo faticoso che lo porta a diventare adulto, ma lo è solo all’apparenza. In effetti è tutto il contrario. L’isola di Arturo, è il romanzo di un incanto, del felice gioco segreto della reinvenzione infantile del mondo, e del suo infrangersi contro lo scoglio improvviso della maturità, della realtà. Arturo parla in prima persona, eppure la lingua in cui è scritta l’opera non è il calco della lingua di un ragazzo. È una lingua a volte elevata, a volte imitativa dei giri sintattici infantili, ma mai ingenua, una lingua che racconta la vita di Arturo, le sue invenzioni, i suoi ardimenti, le sue scoperte, le sue miracolose ingenuità, ma le indica con tenerezza, come dall’alto, da un altro tempo, da un altrove. Sicuramente ne parla a cortina chiusa, a gioco finito. Non più lo sguardo innamorato e corrosivo di Elisa che ci ha accompagnato in Menzogna e sortilegio, ma uno sguardo incantato– intenerito, come di qualcuno ormai cresciuto che guarda se stesso, o come se a raccontare, questa è l’idea di Cesare Garboli, fosse una creatura fantastica, una chimera, che è figlio e madre insieme.

Questo sguardo è capace di raccontarci quasi in un solo movimento l’incanto e la scabra realtà che nasconde, ma mai in tutta l’opera di Elsa Morante come qui nell’Isola di Arturo, fra i due vince l’incanto. Esplode, con una gioia narrativa che non tornerà, un idea dell’infanzia, capace di nutrirsi di tutto, di libri, di esperienze, di animali, di piante, persino di morti e di assenze, per costruire a dispetto degli adulti e del loro abbandono, un modo meraviglioso di stare al mondo, iperbolico, vitale, senza limiti, che ha una soglia però terribile nell’età adulta, che spazza via tutto e lascia solo l’arsura o la morte. Leggendo L’Isola di Arturo, nel-l’affastellarsi dei debiti, accanto all’esperienza terrestre del poeta Arthur Rimbaud, amatissimo da Elsa, costruttore di mondi da giovanissimo che da adulto rinuncia alla poesia per la realtà, non posso fare a meno di pensare, storcendo l’occhio verso la letteratura per l’infanzia che Elsa aveva frequentato giovanissima, al Peter Pan di Barrie, al suo rifiuto di uscire dall’avventura per passare la cruna che lo costringerebbe al mondo adulto, a Pippi Calzelunghe, alla sua forza e allegria contagiose in Villa Villacolle, con scimmia e cane, felicemente lontana dagli adulti. È un libro, che per la forma del suo stile, affabulatorio, fresco e carico, immaginifico e concreto, risuonerà pieno all’ascolto; forse verrà il dubbio che sia stato pensato anche per la lettura ad alta voce. La scelta di una voce femminile, la voce di Iaia Forte rende bene la complessità del timbro del narratore.

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