venerdì 16 settembre 2022
La Biennale francese torna dopo la pandemia con una ben articolata riflessione sulla vulnerabilità come cifra della storia e insieme mostra un’ambiziosa grandeur
Ugo Schiavi, “Grafted Memory System”

Ugo Schiavi, “Grafted Memory System” - Blandine Soulage

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Dopo il salto di un anno a causa della pandemia, torna la Biennale di Lione, la più importante manifestazione dedicata all’arte contemporanea in Francia. E lo fa con una edizione, la numero 16 (fino al 31 dicembre), di grande interesse. Curata da Sam Bardaouil e Till Fellrath, direttori dell’Hamburger Bahnhof, il museo nazionale di arte contemporanea di Berlino, e responsabili del Padiglione francese alla Biennale in corso a Venezia, ha per titolo “Manifesto of fragility”, un “manifesto della fragilità” per immaginare, come scrivono i curatori, «un mondo in cui la vulnerabilità non è più considerata come un segno di debolezza bensì come un fondamento dell’emancipazione ». La fragilità, insomma, come un sintomo vitale, una chiave di lettura del reale e della storia contro le narrazioni hard-edged. È evidente come lo spunto derivi dall’esperienza del Covid-19, che ha messo l’umanità (almeno quella della parte di mondo ricca e industrializzata, perché per l’altra resta un’esperienza comune) di fronte a paure sepolte. Ma Bardaouil e Fellrath sono riusciti a far uscire la riflessione dalla cronaca per portarla su piani molteplici, a loro volta declinati in una struttura espositiva concentrica e stratificata. La Biennale di Lione si articola in tre grandi e solidi capitoli che procedono, come in una spirale logaritmica, dal singolo alla comunità alla condizione globale lungo assi temporali e geografici che si incardinano in quelli che legano con un filo di seta Lione e Beirut e loro reciproche storie. La scelta può apparire curiosa se non anche forzata (Sam Bardaouil è libanese e certamente c’è il desiderio di poter raccontare un’esperienza personale) ma alla prova dei fatti regge nella misura in cui una storia particolare, come ogni narrazione riuscita, riesce a farsi universale. Il primo “strato”, al Mac, il museo di arte contemporanea, è costituito dal virtuosistico racconto delle “Molte vite e morti di Louise Brunet”, figura di giovane donna pescata dagli archivi lionesi che, dopo aver partecipato alla révolte des canuts, gli operai dell’industria tessile, finisce in prigione e quindi dopo quattro anni si trova su una nave per il Libano, dove un imprenditore di Lione sta impiantando un setificio. Sappiamo che anche lì si ribella alle condizioni di vita umilianti ma poi di lei si perdono le tracce. L’oscura Louise Brunet diventa un archetipo, una maschera che (come una sorta di Orlando o di Zelig) attraversa epoche e società, divenendo di volta in volta una donna nigeriana in fuga dall’Expo lionese del 1894, dove è messa in mostra in uno pseudoetnologico villaggio africano, o un artista omosessuale che muore di Aids in un ospedale di New York nel 1992. Sei microstorie allo stesso tempo vere e inventate, raccontate attraverso il detournement di opere che arrivano dai più vari musei lionesi o realizzate dagli artisti invitati, vite insignificanti per la “grande storia”, e anzi spesso vittime degli ingranaggi della macchina sociale e del potere, che emergono per un tratto dall’oblio in virtù di una ostinata forza fragile. Il secondo strato, sempre al Mac, è un’ampia mostra-dossier, questa invece di assoluto e rigoroso taglio storico, sulla stagione artistica, culturale e di impegno politico degli Sessanta a Beirut fino allo scoppio della guerra civile (e con una coda sull’esplosione che nel 2020 ha distrutto il porto, un terzo della città e messo in ginocchio l’intera economia).

Annika Kahrs, “Le chant des maisons”

Annika Kahrs, “Le chant des maisons” - Blandine Soulage

Una città e un paese, il Libano, nella loro perifericità si dimostrano dunque centrali per raccontare l’esperienza di una fragilità complessa e insieme quella della necessità di resistenza e testimonianza che investono costantemente, non solo sotto il profilo materiale, il mondo contemporaneo. Il terzo strato (“ Un monde d’une promesse infinie”) si allarga all’universalità della condizione umana. Lo fa con una diaspora urbana: oltre alla Usines Fagor, un complesso industriale abbandonato di 29mila metri quadrati, sono coinvolte una decina di altre sedi (talvolta non senza una certa ridondanza nei lavori esposti) tra cui – in una volontà di confronto con la storia in nome di una perenne contemporaneità – il (bellissimo) museo archeologico gallo-romano di Lugdunum, i locali quattrocenteschi del Musée Gadagne, quelli déco del Musée Guimet, già sede del museo di storia naturale, svuotati e chiusi da 15 anni, la basilica della Fourvière, le cui vetrate e gli ex voto dedicati agli interventi della Vergine nella vita della città e dei singoli testimoniano, nelle parole dei curatori, l’esperienza della fragilità e della resistenza. Se nelle tappe precedenti il racconto è soprattutto collettivo, con le opere che passano in secondo piano rispetto al quadro curatoriale, emergono qui i contributi dei singoli artisti. Tra gli altri colpiscono, alle Fagor, la tensione tragica del lavoro di Markus Schinwald, la memoria duttile e ingombrante di Lucia Tallová, l’antimemoriale del colombiano Daniel Otero Torres, gli arazzi con le macerie di Ailbhe Ní Bhriain, il panorama grigio (un memento moridi spirito davvero fiammingo) di Hans Op de Beeck, la danza robotica del corpo centenario di Omar Rajeh e Mia Habis, la mise en abyme abitativa di Pedro Gómez-Egaña, il video di Annika Kahrs in cui, attraverso musica e performance, nello spazio chiesa abbandonata dei canuts si ricostruisce la memoria di una comunità in cui lavoro e sacro si intrecciano dialetticamente. Nel Musée Guimet, infine, la grande installazione di Ugo Schiavi in cui la natura, ormai ibridata con la tecnologia, rompendo le vetrine fuoriesce in una dimensione post-storica, ribadendo come l’apparente fragilità nassconda una resistenza elastica e la capacità di adattamento. Il risultato è una mostra politica senza essere ideologica, sociale senza ricatti emotivi, solida nella sua poetica della fragilità. Con un paradosso, però, tutto questo avviene attraverso l’edizione più ambiziosa delle Biennali lionesi. Già con l’ingresso nelle gigantesche dismesse officine Fagor nel 2019 si era assistito a uno scatto espansivo. Se la dimensione diffusa era già presente (senza contare la tradizionale presenza nel territorio con il programma di Veduta) ora il salto di scala urbano è esplosivo, così come si è più che triplicato il numero artisti, che dalla sessantina del 2019 sono passati ai 202 di questa edizione, provenienti da 40 paesi diversi: basti pensare che a Venezia sono 213 da 58 paesi. Sotto tutti gli aspetti è una Biennale monumentale e sono evidenti la volontà e lo sforzo da parte della direzione di Isabelle Bertolotti di mandare un segnale di prestigio e, perché no, di potenza (tutt’altro che fragile) per collocare la Biennale nello scenario postpandemico dell’arte contemporanea internazionale.

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