mercoledì 6 aprile 2016
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ROMA Novanta minuti in due atti senza poter tirare il fiato, uno tsunami verbale e verboso. Questa la cifra quantitativa dell’ultimo testo scritto da David Mamet per Al Pacino che ha debuttato non senza clamori e “rumori” a dicembre dello scorso anno al Gerald Schoenfeld Theatre di Broadway. Ma veniamo all’esordio nazionale avvenuto al Teatro Eliseo di Roma e che fa parte di un trittico con cui il direttore artistico Luca Barbareschi, che da sempre ne è in Italia promotore e divulgatore, vuole omaggiare uno dei pochi artisti americani a divenir famoso prima col teatro ( American Buffalo, Glengarry Glen Ross, Mercanti di bugie) e in un secondo momento con sceneggiature indimenticabili quali Gli intoccabili, Il verdetto, Il postino suona sempre due volte. Non sarà però a nostro avviso questo copione a lasciare un segno indelebile nella drammaturgia statunitense perché innanzitutto non aggiunge nulla di nuovo rispetto ad altre opere dello stesso Mamet sulla perversione del potere, sull’idolatria del denaro e sul sogno americano che diviene incubo. E in secondo luogo è un testo che non fa poesia, non crea qualcosa che illumini l’agire umano e vada al di là di una pur doviziosa e arguta analisi cronachistica. E grevi, gravidi di materialità affaristica, densi di umana avidità e meschinità sono i fatti di China Doll, questo il titolo della pièce, in cui non c’è traccia, né occulti riferimenti alla Cina tantomeno alle bambole, ma è in realtà una locuzione americana intraducibile che significa più o meno “impiccio pazzesco”; quello in cui viene trascinato il protagonista Mickey Ross, un anziano magnate della finanza, avvezzo da sempre a sguazzare nei mefitici acquitrini del capitalismo e del raggiro spietato, una sorta di ricco epulone con tanto di fidanzatina di qualche generazione più giovane, un moderno Re Lear che proprio come l’empio monarca shakespeariano diviene «vecchio prima di diventare saggio». Accanto a lui Carson, giovane assistente, tuttofare “yes-man”. La trama si deduce totalmente attraverso le innumerevoli telefonate e gli sparuti dialoghi frammentati e riguarda un jet privato di sessanta milioni di dollari acquistato in Svizzera per eludere le tasse, una violazione della legge federale… ma è solo il primo anello di un vorticoso gorgo nel quale precipiterà lo spavaldo e spregiudicato capitalista. Ma di dipanare questo intrigo non viene tanta voglia perché è come trovarsi di fronte a una matassa uniforme in cui minacce, ricatti, scuse opportunistiche, strategie ciniche scaturiscono da menti e comportamenti umani resi monotoni da un’unica tattica: l’inganno. Il personaggio di Ross è una monade, senza alcuna sfumatura e di conseguenza il tentativo di Mamet di addentrarsi in un’analisi psicologica non può produrre nulla di significativo. Di trappola in frode si scivola verso l’epilogo: è così smaccata e irreprimibile l’ansia autoriale di dare un finale thriller a un testo ben poco adrenalinico che nemmeno al più accanito “spoiler” verrebbe in mente di svelarlo. La regia è di Alessandro D’Alatri e ben riuscito è il suo lavoro sulla parola; onesta l’interpretazione del giovane Roberto Caccioppoli (Carson) che si trova a dover gestire in poche battute un ribaltamento del suo personaggio tanto repentino quanto strumentale; grande e impegnativa prova per Eros Pagni (Ross) che senza cedimenti sfrutta la sua maschera arcigna e la magistrale esperienza e tra scoppi d’ira e toni flautati riesce a tenere alta tensione e attenzione. Chapeau. © RIPRODUZIONE RISERVATA All’Eliseo di Roma va in scena “China doll” per la regia di Alessandro D’Alatri Una piéce senza poesia, quella scritta dall’autore americano, dove domina solo l’inganno. Grande prova di Eros Pagni, l’unico a tenere alta la tensione in sala MATTATORE. Eros Pagni
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