giovedì 26 giugno 2014
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«Il vero problema per la cultura umanistica sta in un atteggiamento culturale che la ritiene ormai superata e inutile, qualcosa che costa molta fatica e che poi non serve, perché tutto viene finalizzato a un rapido risultato concreto, mentre la formazione culturale in quanto tale non è valorizzata». A lanciare questo grido d’allarme è Cinzia Bearzot, professore ordinario di Storia greca all’Università Cattolica di Milano. Per lei, ci spiega, il problema non è la tecnologia che pervade sempre più la società e la vita stessa dei ragazzi, ma una mentalità diffusa che, esaltando il nuovo a tutti i costi, finisce per svilire lo studio di alcune materie considerate sorpassate. «E la tecnologia – aggiunge – talora complica ulteriormente le cose».In che modo, professoressa?«Faccio un esempio. Sappiamo che i ragazzi utilizzano moltissimo internet per lo studio. Ma la rete non è sempre affidabile: se una volta si doveva distinguere tra buoni e cattivi libri, oggi bisogna distinguere fra siti seri e meno seri».Cosa dovrebbero fare i professori?«Cercare di alimentare nei ragazzi un atteggiamento critico verso l’informazione offerta dalla rete, che aiuti a evitare passività, acriticità e soprattutto quella pigrizia mentale che ti fa accontentare della prima cosa che trovi. Paradossalmente, occorre una buona cultura e una discreta consapevolezza critica per usare la rete con intelligenza e con profitto. Stiamo parlando di strumenti che possono far danni, ma anche costituire una risorsa. Chi fa ricerca e didattica in ambito umanistico sa bene quanto sia cambiato, e in positivo, il modo di lavorare grazie alle risorse informatiche, che hanno abbreviato di molto i tempi della ricerca bibliografica e documentaria e favorito nuove possibilità di accesso ai testi, nonché di interrogazione e trattamento dei medesimi. Vero è che hanno favorito talora anche superficialità e cursorietà».Come cambia, a suo avviso, la disposizione mentale e l’approccio al sapere dei ragazzi di oggi, cioè dei cosiddetti "nativi digitali"?«Penso che le generazioni abituate all’accessibilità dell’informazione sentano meno il bisogno di assimilare le conoscenze e di farle proprie. In questo modo però l’idea stessa di cultura cambia: non è tanto importante quel che uno sa e sa utilizzare, quanto quel che uno sa reperire, ed è più importante essere un abile navigatore che una persona colta. Con tutti i rischi che questa idea comporta».Come sta cambiando, e come dovrebbe cambiare, la didattica delle discipline classiche (storia antica, greco, latino ecc.) grazie alle nuove tecnologie?«Le nuove tecnologie facilitano l’accesso alle fonti, in originale e in traduzione, e al materiale iconografico (immagini fotografiche, ricostruzioni, carte), e semplificano la comunicazione. L’uso di un programma come PowerPoint può rendere più efficaci le lezioni, dato che gli studenti sono ormai più abituati all’immagine che alla parola scritta. Ma queste stesse risorse informatiche impongono di ripensare alcuni aspetti della didattica tradizionale: la versione o la ricerca si trovano spesso già fatte su internet e se un insegnante assegna questo genere di compiti, sa in partenza che molti studenti non li eseguiranno, ma cercheranno piuttosto delle scorciatoie».Ma la domanda di molti è ancora più radicale: a cosa serve oggi studiare latino e greco?«Chiedersi a cosa serve studiare il mondo antico, rischia di essere fuorviante. In realtà, gran parte di ciò che si studia non serve immediatamente: questo vale per il greco e il latino, ma anche per i logaritmi e la trigonometria. Ma non si deve studiare solo ciò che serve nel quotidiano o che può essere funzionale a una professione. Studiare serve a conoscere la complessità del cammino umano, a incontrare la bellezza che ha prodotto, quindi a crescere culturalmente e ad acquisire una serie di strumenti critici: nello specifico, la formazione classica è una base per preparare personalità complete, ricche di strumenti di interpretazione della realtà e per questo capaci, con l’elasticità tipica della formazione umanistica, anche di acquisire le competenze tecniche e le abilità necessarie nella professione. Non è un caso se in passato medici, ingegneri, scienziati avevano tutti una formazione classica».Ma qual è il portato di queste materie?«Anche chi difende lo studio delle lingue classiche spesso non coglie il punto fondamentale e propone considerazioni estrinseche o deboli. Per esempio, si sente dire che lo studio delle lingue classiche va promosso in quanto esercizio intellettuale capace di sviluppare le capacità logico-deduttive: ma è facile obiettare che lo stesso risultato si potrebbe ottenere studiando di più la matematica, o, per restare nel campo linguistico, con lo studio del cinese o dell’arabo. Neppure si può sostenere che la conoscenza del greco e del latino sia necessaria per la comprensione dei linguaggi tecnico-scientifici». E allora quali sono le ragioni dell’insostituibilità delle lingue classiche?«Studiare greco e latino significa avere la chiave per accedere direttamente al patrimonio di idee, concetti, valori, saperi che l’antichità ha elaborato e che sono alla base della civiltà occidentale, degli aspetti più significativi della sua cultura e del suo stile di vita».Ma anche qui è prevedibile un’altra obiezione: non si potrebbe, a questo scopo, studiare la civiltà, l’arte e la letteratura antica senza torturare i ragazzi con uno studio grammaticale e linguistico che spesso viene percepito come arido e fine a se stesso?«È vero che si può scindere lo studio della civiltà antica dalla conoscenza delle lingue classiche, ma è anche vero che senza l’accesso diretto ai testi la conoscenza del passato resta poco critica e scarsamente consapevole. Credo quindi che lo studio del greco e del latino sia un insostituibile strumento di confronto interculturale e che soltanto così si possa accedere a un patrimonio immenso di testi fondamentali, per penetrare criticamente nel pensiero e nella cultura degli antichi. Che ci riguardano più di quanto non si pensi».
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