sabato 27 luglio 2019
Il testo riduce il tetto di sconto al 5%, ma così consente un riequilibrio sul mercato fra catene e piccoli editori e librai. Servono incentivi
(Boato)

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Non c’è pace per la nuova legge sul libro (Piccoli Nardelli, Belotti, Mollicone, Frassinetti, Casciello). Per lunghi anni – almeno dal 1997, quando il ministro per i beni culturali Walter Veltroni aveva ricostituito la Commissione nazionale del libro e si era poi tenuta a Torino la Conferenza che indicava le misure più adeguate per intervenire nel settore –, si sono fatte varie proposte di legge sul libro, che però – indipendentemente dalla loro validità ed efficacia – rimanevano regolarmente sulla carta per mancanza di copertura finanziaria. Fatto sta che, di dibattito in dibattito, di tavolo in tavolo, di rinvio in rinvio, non si è mai riusciti a trovare il bandolo della matassa e tutto è finito nel libro dei sogni.

Fino a oggi, perché la legge è finalmente arrivata, ma si è già scatenata una battaglia destinata a lasciare il segno. L’Associazione italiana editori, l’Aie, ha espresso fin da subito la propria contrarietà, sostenendo che la maggior parte degli editori che rappresenta (ossia il 90% del mercato librario) l’ha giudicata negativamente, sia per ciò che è scritto nella legge, sia per quello che non vi è scritto. Attraverso il suo presidente, Ricardo Franco Levi, ha poi rincarato la dose, dicendo con franchezza che, così come è formulata, questa legge non può funzionare. Perché se gli obiettivi sono naturalmente condivisi da tutti, il modo di raggiungerli non è quello giusto.

Il primo pomo della discordia è quello dello sconto. Si deve per prima cosa ricordare che già nel 1997 si era convenuto, nell’apposito Gruppo di lavoro incaricato di trattare l’argomento, che la prima necessità per i libri era di avere un prezzo fisso, sia per garantire un’equa concorrenza fra canali distributivi diversi, sia per assicurare il pluralismo dell’offerta editoriale, anche per i titoli a bassa rotazione. Si era anche d’accordo sul fatto che, pur evitando di penalizzare i canali e i punti vendita in grado di praticare sconti maggiori, un eccessivo abbassamento del prezzo di vendita al pubblico avrebbe comportato delle conseguenze negative sul mercato e in particolare sulla libreria.

Nel Gruppo di lavoro si era raggiunta una posizione univoca soltanto in riferimento al massimo sconto possibile: l’Associazione librai italiani e l’Associazione italiana piccoli editori erano per un tetto massimo del 10%; l’Associazione italiana editori per il 20%. Il disegno di legge originario n. 1257 sulla “Nuova disciplina del prezzo dei libri”, presentato il 5 giugno 2008 per iniziativa di Ricardo Franco Levi (attuale presidente dell’Aie) e di altri sedici deputati – poi confermato nella legge n. 128 del 27 luglio 2011 – aveva avuto il merito di realizzare un non facile compromesso tra posizioni diverse: da un lato, si metteva in soffitta quella che allora era stata ventilata come liberalizzazione dei prezzi (che non avrebbe avuto alcun effetto correttivo e benefico sul mercato); dall’altro, si concedeva la possibilità di praticare uno sconto fino a una percentuale massima del 15% sul prezzo fissato in copertina dall’editore, pur con le eccezioni di poter innalzare lo sconto al 20% in occasione di «manifestazioni di particolare rilevanza internazionale, nazionale, regionale e locale» (cioè tutte); a favore di organizzazioni non lucrative di utilità sociale, istituti, centri, biblioteche, musei, scuole, università (cioè tutti), in occasione di campagne promozionali e in altri casi ancora.

Come si vede, uno sconto molto flessibile, in considerazione anche dei cambiamenti del mercato di questi anni, dei comportamenti d’acquisto del pubblico, di nuove forme di distribuzione e comunicazione. Con la nuova legge – che modifica quella del 2011 in materia di sconti e di vigilanza sul prezzo di vendita dei libri, «anche attraverso il contrasto di pratiche limitative della concorrenza» (art. 9) –, il tetto massimo di sconto è abbassato dal 15% al 5%, con alcune deroghe per i libri di testo adottati nelle scuole e per le offerte promozionali (effettuate in un solo mese dell’anno, non per i libri pubblicati sei mesi prima della promozione, e con uno sconto non superiore al 20%). Va da sé che questa riduzione comporterà, per i maggiori gruppi editoriali, i grandi distributori e le librerie di catena, un minor fatturato (oggi non valutabile, ma certo di parecchie decine di milioni).

Il secondo motivo di contrasto da parte dell’Associazione italiana editori è che le risorse stanziate dalla nuova legge (5.150.000 euro all’anno, a partire dal 2020: art. 12), oltre al problema non secondario di esser certi che siano disponibi-li, sono del tutto insufficienti ad affrontare la complessità dei problemi derivanti dall’attuale situazione della lettura e dal mercato del libro in Italia. In pratica, l’Aie teme che servano a poco, che tutto possa restare nuovamente sulla carta e che, in ogni caso, i limiti di sconto e altre mancate facilitazioni all’acquisto possano tradursi in un danno sia per gli editori che per le famiglie e i singoli. Sul fronte opposto, ci sono le categorie degli editori e dei librai indipendenti che, non in grado di dare e di ricevere maxisconti, sono soddisfatti dei limiti di sconto imposti dalla legge, salvo che per quella fetta importante di scolastica che può superarli.

Tenendo conto del ruolo, non solo commerciale ma storico e culturale, sia delle piccole case editrici sia delle librerie, e delle difficoltà che hanno attraversato in questi lunghi anni, la legge non può complessivamente che risultare un segnale positivo.

A margine di questi elementi obiettivi, aggiungo qualche considerazione personale. Una legge del libro ha come scopo principale – e qui sono tutti d’accordo – di allargare la base della lettura, immettendo nel circuito nuovi soggetti che sostituiscano almeno quelli che nel frattempo si sono persi (per età, malattia, problemi di vista, ecc.); di stabilizzarla (rendere il lettore occasionale abituale e fare in modo che non regredisca); di intensificarla (rendere il lettore abituale un po’ più costante) e distribuirla in modo quanto più possibile omogeneo su tutto il territorio (si sa che oggi il rapporto tra Nord e Sud è troppo squilibrato). Questo sforzo di coltivare il lettore è tra l’altro anche il primo modo per sostenere le imprese editoriali: alle quali non servono più o meno solide stampelle quando già stanno zoppicando, ma hanno l’assoluta necessità di trovare prima condizioni, strutture e procedure che le facciano camminare spedite con le proprie gambe. La crescita della lettura, con l’istruzione, la ricerca e la cultura in genere, è una delle leve dello sviluppo civile ed economico, e la proposta di legge di cui si sta discutendo vorrebbe appunto essere una tappa verso questo importante obiettivo.

Il problema se la nuova legge riuscirà o non riuscirà a raggiungerlo non dipende però dallo sconto, che è sì un forte incentivo all’acquisto, ma di per sé non modifica minimamente il comportamento di chi non legge. Serve in sostanza ad aumentare molto le vendite (a seconda dell’entità dello sconto) di chi già legge, non a stimolare chi non ha alcun interesse a leggere. Dipende invece dalle risorse e da come si spendono, dalla capacità di applicare le norme, dalla volontà di attuare essenziali misure di sostegno ed efficaci agevolazioni fiscali, che pur non sono mancate in questi anni, come ha ben illustrato a maggio Paola Passarelli, direttore generale delle biblioteche e degli istituti culturali, nella sua Audizione informale davanti alla Commissione cultura della Camera dei deputati. Ma, oltre alla necessità di andare maggiormente incontro ai bisogni delle famiglie meno abbienti (la spesa per i libri scolastici pesa sui bilanci familiari e sono oltretutto soldi che si spendono tutti insieme, più o meno nel giro di un mese), c’è un più ampio contesto virtuoso da ricostruire ai vari livelli della filiera editoriale, in modo da creare una pacifica concorrenza e convivenza che rechi vantaggio al libro e alla lettura.

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