venerdì 5 ottobre 2012
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​Nei tanti mercati del «meticciato editoriale» di oggi (libri, e-book, tecnologie avanzate, stampa digitale, banche dati, programmi di gestione, servizi vari, ecc.), la Buchmesse di Francoforte (10-14 ottobre) rappresenta sempre l’appuntamento principe nel mondo per tutti gli editori e i professionisti del libro. Certo – per parlare il linguaggio degli antichi –, non è più quella di una volta; è molto cambiata nel corso degli anni nella tipologia e nel numero degli espositori, negli affari, nel pubblico. Quando ci andai per la prima volta nel 1974, e poi per altri trent’anni, c’era una curiosità e una frenesia difficili da descrivere. Si passava (o, per meglio dire, si correva) da un padiglione all’altro con un’impaziente avidità d’informazione e di ricerca; magari si aveva poco o niente da vendere sul piano dei diritti, ma la Fiera per antonomasia restava comunque un riferimento obbligato per tutti gli stimoli e le idee che offriva, al di là degli stessi libri esposti in questa immensa libreria del mondo. Oggi, mi dicono, si va meno in avanscoperta; è un po’ tutto più tranquillo, rituale, programmato. Si sa già in partenza quello che si vuole e quello che cercano gli altri: gli appuntamenti servono soltanto per perfezionare e concludere rapporti già avviati da tempo. All’apparenza, niente sembra mutato nella Buchmesse. In realtà, non è così e,  se non altro, è cambiato lo spirito e forse anche il motivo per cui ci si va. Lo spirito, perché la situazione attuale del mercato editoriale non è, per usare un eufemismo, una delle più favorevoli. Il motivo, perché forse interessano meno le novità librarie e più invece le innovazioni dell’area tecnologica, dove si stanno aprendo spazi e opportunità nuove. In ogni caso, si va alla Fiera per capire i movimenti e le tendenze in atto nel settore in cui si è più direttamente coinvolti, e già questo non è cosa da poco, visto che, in questo mercato-ponte dove non si sa mai bene quello che si può trovare dall’altra parte, sulla terra ferma -, è importante valutare con molta lucidità e oculatezza come investire con profitto. C’è da registrare nel frattempo che ormai sta quasi calando il sipario sul dibattito – per certi versi diventato un po’ stucchevole – che ha visto in questi anni contrapporre il libro tradizionale all’e-book. Perché sia i fanatici dei libri in formato digitale e dei relativi strumenti di lettura, sia gli altrettanto passionali amanti del libro di carta sono venuti a una sorta di ragionevole compromesso, fondato su alcune chiare evidenze. Da un lato, sarebbe infatti sciocco negare le grandi potenzialità che l’e-book e le tecnologie digitali in genere hanno di creare nuove modalità di accesso ai testi e nuove relazioni con essi. Anzi, si è tutti abbastanza d’accordo che tutta la parte d’informazione o di aggiornamento di un testo trasmigrerà ben presto su un supporto digitale, trovandolo più adeguato e comodo di un’edizione a stampa (con il libro cartaceo pubblicato a cadenze periodiche o stampato su richiesta). Dall’altro lato, però, bisogna mettere sul piatto della bilancia non solo quello che le tecnologie offrono in più rispetto a un libro fisico (vale a dire multimedialità, collegamenti, applicazioni, ingrandimento di caratteri, prezzi più bassi, trasportabilità di intere biblioteche, ecc.), ma anche quello che di sostanziale tolgono alla lettura come esperienza interiore e come capacità di memoria. Tutto sembra uguale alla lettura in un mezzo o nell’altro; in realtà, è diverso quello che si percepisce e quello che resta, a seconda di come uno legge, che se ne sia consapevoli o meno. Ci si riferisce soprattutto al tipo di rapporto, cognitivo, affettivo o emotivo che si stabilisce con un libro fisico attraverso un diverso tempo di lettura, riflessione, meditazione, contemplazione (anche visiva, come in un volume d’arte, dove la spazialità della visione può essere tutto): rapporto intimo ed intenso che, in un e-book, per la natura stessa dello strumento (maggiore rapidità di lettura, diminuita concentrazione o irriproducibilità tecnica), risulta in buona parte compromesso. Una cosa è certa. Per il momento – e ancora per lungo tempo – gli affari in Italia si fanno con i libri di carta. Per quanto non sia una fase esaltante dal punto di vista letterario e culturale, a Francoforte i principali gruppi del trade (Mondadori, Rcs, Mauri-Spagnol, Giunti, Feltrinelli) avranno comunque alcune buone carte da giocare a livello internazionale. Alcuni, poi – come Rizzoli con il terzo, imminente volume del Gesù di Nazaret di Benedetto XVI –, troveranno ad attenderli una platea molto interessata e che è facile prevedere anche numerosa. Così come, per restare in argomento, la Libreria Editrice Vaticana, nel suo stand sempre più importante per spazio e visibilità, potrà vendere a case editrici straniere non pochi diritti di altri scritti del Papa (probabilmente anche quelli dell’annunciata enciclica sulla fede), mentre Mondadori sarà tra l’altro impegnato a lanciare il nuovo libro di Vittorio Messori sulle apparizioni di Lourdes (Bernadette non ci ha ingannati), altro best-seller dei prossimi mesi.Naturalmente, a giocarsi qualche partita ci sono anche le piccole sigle editoriali che, come sempre, affollano in buon numero lo stand collettivo organizzato dall’Associazione italiana editori. Anche per loro Francoforte è un’occasione per farsi conoscere, proporre libri da tradurre, valutare opere di cui acquisire i diritti. È indubbiamente una fase difficile e che richiede molta prudenza, giusto per evitare – come direbbe il Qoèlet – di «correre dietro il vento» e quindi di lavorare senza frutto. In realtà, questo non è soltanto il tempo degli sprinter, che devono essere agili come gazzelle per cogliere le opportunità; è anche il tempo degli acrobati, che devono trovare la posizione di equilibrio più idonea per passare indenni tra i rischi dell’editoria di oggi. In ogni caso, Francoforte resta una tappa importante in un senso e nell’altro.
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